
Crescendo impariamo a fare cose che prima non sapevamo fare. Ci sono persone che sono orgogliose di ogni passo di autonomia guadagnato. Altre che amano ricevere aiuto perché gli sembra, così, di rimanere bambini.
Il punto è che ogni autonomia disegna una distanza relazionale in più: non ho più bisogno che mi accompagni a scuola, non ho più bisogno che mi prepari il pasto, non ho più bisogno che mi vieni a prendere perché ormai ho la patente. Potremmo allungare questa lista di autonomie all’infinito perché ogni giorno impariamo qualcosa di nuovo. Non solo di pratico ma anche di emotivo.
C’è un aspetto però che è spesso nascosto e molto interessante. Aver bisogno presuppone un’attesa. Se non so fare qualcosa e ho bisogno di essere aiutato ti devo, in qualche modo, aspettare. Devo aspettare che tu possa aiutarmi. Aspettare la tua attenzione. E quell’attesa può virare in due direzioni: frustrazione o creatività. Se vira verso la frustrazione può trasformarsi in rabbia, irritazione, offesa, desiderio impellente di fare da soli.
Ecco, per alcune persone succede questo: maturano autonomia perché non si fidano che arrivi qualcosa nella relazione. Fanno da soli perché non credono che fare insieme sia possibile. Fanno da soli perché si sentono migliori. Fanno da soli perché non vogliono rimanere delusi. Fanno da soli perché sono difficili da accontentare. E questo coltiva una qualità di solitudine sterile. Sterile perché nasce dalla delusione relazionale. Sterile perché senza speranza. Sterile perché nata da una frustrazione troppo grande da tollerare.
Si infilano così in un tunnel fatto di autonomia e biasimo verso gli altri, per quello che non fanno, per quello che non vedono. Una condizione così dolorosa perché sono sommersi dal bisogno e impossibilitati ad aspettare che la risposta dell’altro fiorisca. Che la relazione fiorisca nella direzione del reciproco sostegno. Lo so: è incerta la nostra vicenda relazionale. Non possiamo mai sapere prima come andrà a finire. ma nemmeno essere certi che andrà sempre a finire nello stesso modo è una soluzione. Dobbiamo rischiare. E il rischio più grande è quello di rimanere aperti, di sentire cosa succede nell’attesa dell’altro. Di rimanere aperti perché, così, possiamo sentire il sapore di essere vivi. Nell’altro modo sentiamo il sapore dell’essere autonomamente isolati. O bisognosamente autonomi.
Attraversare la vita con il cuore chiuso è come fare un viaggio attraverso l’oceano chiusi nella prigione della nave. Alexander Lowen
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© Nicoletta Cinotti 2017 Il protocollo MBCT
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