
Trauma non è tra le mie parole preferite perché è una parola che spaventa. Indica qualcosa che ha attraversato, perforato, bucato un tessuto intatto che, poi, rimane lesionato. È vero che abbiamo la capacità di cicatrizzare e che di alcune ferite non rimangono segni. Di altre sì. Dipende dalla profondità della ferita e dalla facilità di cicatrizzazione della persona. In ogni caso è qualcosa di doloroso che avviene senza che sia possibile evitarlo. Entra nella nostra vita all’improvviso e sposta la nostra attenzione sul pericolo. Ci vuole tanto per convincere una persona che ha avuto un trauma a spostare l’attenzione dal pericolo alla gioia, dalla paura alla sicurezza. Molti pensano che potranno farlo quando tutto sarà finito ma non funziona così. Per far finire una storia di trauma può volerci tempo e, nel frattempo, è necessario riprendere a vivere e riprendere fiducia. Perché i traumi, piccoli o grandi che siano, rubano la fiducia nei confronti degli altri.
Credo che non sia facile diventare adulti senza avere lasciato alle spalle qualche piccolo trauma. I miei li ho sistemati nella nebbia per molto tempo. Erano avvolti in una sorta di ovattamento che mi permetteva di guardarli ma di non sentirli. Sapevo che c’erano ma era una questione quasi intellettuale. Capivo cosa aveva contribuito a farli succedere ma sembrava che fossero accaduti ad un’altra me. È un meccanismo difensivo che aiuta a superare lo choc. Fino a che mi sono resa conto che quello che avevo ovattato non era poco. Era un’ altra-me, altro-da-me, che tornava a farsi sentire nelle situazioni di pericolo. In quei casi diventavo iper-reattiva. Mi proteggevo come se davanti a me ci fosse un cannone e invece era solo una pistola ad acqua. L’esagerazione delle mie risposte è stato il mio filo d’Arianna. L’ho preso in mano quel filo e ho lasciato che mi conducesse nel labirinto dove avevo imprigionato la parte ferita. Imprigionata perché ero convinta che non avrebbe dovuto interferire con la mia vita, che sarebbe stata un ostacolo. Tutto quello che ho fatto dopo lo devo a lei. Arrivare nel labirinto, trovarla e incominciare finalmente a curarla è stato quello che mi ha permesso di fare tutto quello che faccio. Ogni mattina scrivo a te ma anche a lei. Forse dovrei dire che ogni mattina le scrivo una lettera che condivido con te. Le racconto che cosa è successo nel mondo mentre lei era prigioniera. La aiuto a crescere e lei mi insegna a giocare, ad essere felice delle piccole cose, a non dare per scontata una giornata di sole e una giornata di pioggia. Non ha avuto rancore nei miei confronti. Sa che non avrei potuto fare diversamente e che questo è il nostro patto di reciproco armistizio. Riconoscere che se non l’ho fatto prima o non l’ho fatto meglio è perché prima e meglio non era possibile. Non ci riuscivo. Avevo paura di ascoltare il mio dolore. Avevo paura di ascoltarmi. Adesso posso farlo. Forse questo è il più bel regalo che ci fa lo scorrere del tempo. Ci rende coraggiosi perché sappiamo che il nostro libro non ha tantissime pagine ancora da leggere e che la parte finale del libro è sempre quella più bella, quella più importante. Quella che rende il libro che abbiamo letto indimenticabile.
Vorrei sedermi vicino a te in silenzio,
ma non ne ho il coraggio:
temo che il cuore mi salga alle labbra.
Ecco perché parlo stupidamente
e nascondo il cuore dietro le parole.
Tratto crudelmente il mio dolore
per paura che tu faccia lo stesso. Federico Garcia Lorca
Pratica di mindfulness: scriviti una lettera, e se non riesci a scrivere semplicemente rivolgi a te stesso delle parole gentili, Inizia a parlarti come parleresti al tuo miglior amico, al tuo miglior confidente. Cerca le tue parole di conforto
© Nicoletta Cinotti 2022 Il silenzio come cura. Ritiro di bioenergetica e mindfulness