
Notare e nominare
Uno dei dolori più profondi della nostra esperienza umana è quello di sentirci isolati e incompresi, la negazione del nostro bisogno di essere conosciuti e compresi. Un dolore che viene rafforzato dalla nostra stessa incapacità a trovare le parole per esprimere ciò che sentiamo. Veniamo presi da un turbinio di pensieri, ci perdiamo e perdiamo il senso di ciò che vogliamo dire perchè le nostre parole, anzichè essere ancorate alla nostra esperienza, diventano l’espressione di un rimuginare ricorsivo. Per uscire da questo circolo vizioso è necessario un ancoraggio. Il noting è una pratica che alterna l’ancoraggio o grounding, alle emozioni o sensazioni, all’ampliamento della consapevolezza. Più permettiamo questa forma di ancoraggio, più impariamo su noi stessi diminuendo il rischio di perdere la stabilità e la calma.
La differenza tra notare e nominare
Il processo di nominare può essere arricchito attraverso la ricerca di una parola adatta alle sensazioni che notiamo. Perché questo produce arricchimento? Per diverse ragioni: la prima e forse la più ovvia è che nominando qualcosa rafforziamo il nostro ancoraggio a ciò che nominiamo, leghiamo con più forza la nostra attenzione ed espandiamo il campo di ciò che conosciamo.Inoltre nominare ci permette di comprendere maggiormente quali sono le emozioni coinvolte perché ci aiuta a riconoscere il tono emotivo che emerge nel farlo.
Usando la risonanza magnetica funzionale è stato confermato che nominare ha una funzione rilassante perché l’amigdala, che è l’attivatore delle risposte automatiche difensive, è meno attiva quando una esperienza è nominata, come se venisse “rassicurata” che la situazione, è padroneggiata e padroneggiabile. L’inibizione della risposta difensiva dell’amigdala si accompagna ad una maggiore attività della corteccia prefrontale, che rafforza ulteriormente la disattivazione del meccanismo di azione dell’amigdala.
Il network di default
Nel 2001 Debra Gusnard e Marcus Raichle identificarono una rete di regioni cerebrali attive, quando la mente è in riposo, e inattive quando siamo impegnati in qualcosa, e la definirono network di default. Questo network opera nel background della mente collegando il nostro passato al nostro futuro e contribuendo alla formazione del nostro senso di sé. Questo network è quello che funziona quando ancoriamo le nostre parole alla nostra esperienza vissuta.
Giuseppe Pagnoni, insieme ad un gruppo di ricercatori della Emory University osservarono due gruppi di soggetti, meditanti e non meditanti, per valutare la capacità di ancoraggio al corpo e al respiro dopo aver svolto un compito cognitivo. I meditanti mostrarono una migliore capacità di ancoraggio e un miglior funzionamento di questo network di default. I ricercatori pensano che lo sviluppo di un ancoraggio al corpo permetta il rafforzamento del network di default e una migliore risposta agli affetti negativi.
Nominare e calmare
Quando ci succede qualcosa che giudichiamo negativo abbiamo tre reazioni istintive, in parte connesse al funzionamento difensivo dell’amigdala, che è il cuore dell’area limbica e il regolatore della risposta automatica di attacco e fuga: ci giudichiamo, ci isoliamo e rimaniamo assorbiti in noi stessi. In qualche modo se non riusciamo ad individuare una fonte esterna di pericolo rivolgiamo la risposta difensiva contro di noi. Queste tre strategie – autocritica, isolamento e assorbimento in se stessi – ci hanno aiutato ad imparare strategie di sopravvivenza fisica ma quando vengono applicate al funzionamento emotivo e mentale producono più danni che vantaggi perché a quel punto il nemico diventiamo noi stessi….
Fortunatamente siamo in grado di produrre anche risposte di protensione verso l’esterno e di contatto sociale, quelle che vengono definite tending e befriending response. Come sappiamo dalla letteratura bioenergetica noi ci muoviamo in modo da protenderci e ritiraci in un flusso di apertura e chiusura verso l’esterno. Entrambi questi movimenti sono necessari. Il problema diventa quando rimaniamo incastrati in uno dei due: o troppo aperti o troppo chiusi. Lavorare bioenergeticamente sul corpo ci permette di riportare fluidità a questi due movimenti e sostenere l’apertura quando siamo troppo isolati o ritirati e il ritiro riparativo quando diventiamo troppo dipendenti dagli altri.
In questo modo favoriamo l’emergere di sentimenti di empatia, compassione e rispetto nei confronti di noi stessi.
In questo modo, sostenendo il fluire spontaneo tra apertura e ritiro riparativo permettiamo il sorgere di risposte spontanee di tending (protensione) e befriending ( contatto) e iniziamo a trattare noi stessi non come nemici ma come amici.
Accettando i nostri difetti possiamo vederci non come la fonte della nostra infelicita ma come la casa della nostra felicità. E trovare le parole giuste per esprimere ciò che sentiamo, per quanto distruttivo possa sembrare, ci permette di integrare consapevolezza di sè, autoespressione e padronanza di se stessi: le tre colonne del Sé corporeo.
Procediamo così in un percorso verso casa: la nostra casa, noi stessi.
a cura di ©Nicoletta Cinotti
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