Per comprendere la sofferenza relazionale dobbiamo dare un’occhiata alla nostra tendenza ad aggrapparci. Una tendenza tanto forte da passare, a volte, in primo piano rispetto a qualsiasi alternativa. È una tendenza istintiva, presente fin dalla nascita. I neonati si aggrappano alla mano prima ancora di comprendere cosa sta per succedere. Perché quell’aggrapparsi comunica sicurezza. Dà la sensazione di avere un contatto vitale. Nelle relazioni succede la stessa cosa. Quando incontriamo qualcosa di piacevole, cerchiamo di trattenerlo, per evitare che svanisca troppo presto. Così internamente iniziamo ad associare il trattenere alla sicurezza. E finiamo per trattenere anche quello che, forse, sarebbe da lasciar andare.
È facile vedere come ci aggrappiamo a ciò che è piacevole, difficile riconoscere che ci aggrappiamo anche a ciò che è spiacevole. Quando torniamo con la mente a qualcosa di negativo che ci è accaduto, non ci stiamo forse aggrappando? Quando non perdoniamo qualcuno per un torto subito, non ci stiamo forse aggrappando, anche se con l’idea di riparare il danno? Se pretendiamo che le cose finiscano quando vogliamo noi, non ci stiamo forse aggrappando? E alla fine dietro a tutto questo aggrapparci non c’è l’idea che sia meglio che tutto rimanga com’è, anziché cambiare?
Di solito non pensiamo alla felicità nei termini di qualcosa che finisce ma, piuttosto, nei termini di qualcosa di buono che arriva o dell’ottenere quello che desideriamo. Comunque se osserviamo le nostre vite e pensiamo attentamente a ciò che vediamo diventa chiaro che i desideri, le urgenze, le bramosie che ci accompagnano creano un senso di tensione e che l’allentarsi di questa tensione, se e quando si realizza, è un forma di leggera felicità. Gregory Kramer
Pratica di mindfulness: Meditazione sul perdono
© Nicoletta Cinotti 2016 Cambiare diventando se stessi
Foto di @Cristina Negrini
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