
La saggezza delle fratture (The Wisdom of Shattering)
Da giovane erouna ginnasta competitiva ma ricordo il giorno in cui sono uscita dal tappeto della competizione, mi ci sono seduta sopra e ho cominciato a contemplare l’idea di smettere. Avevo 12 anni.
La ginnastica era stata la mia vita e aveva definito l’orbita delle mie ambizioni infantili. Ero sempre in lotta con i miei traumi fisici, non solo perché volevo guarire ma anche perché avevo paura di farmi di nuovo male, imparando qualche nuovo esercizio. Ho avuto cinque ingessature per 8 fratture in soli 4 anni. Come toglievo l’ingessatura e iniziavo a recuperare forza, mi facevo male di nuovo.
Con così tanti traumi la mia mente, da bambina, era terrorizzata che accadesse il trauma peggiore di tutti: rompermi l’osso del collo.
Una volta, mentre stavo facendo un esercizio su barre irregolari, il mio allenatore mi riprese al volo da una caduta. Nel movimento mi ero rotta un gomito, probabilmente perché avevo forzato troppo il passaggio dalla barra alta – che comportava una elevazione e una rotazione -per afferrare la barra bassa. Feci un movimento all’indietro: questo è quello che succede quando abbiamo paura eppure ci forziamo ad andare avanti. Diventiamo tesi ed esitanti e il nostro corpo non sa più come volare.
Il mio allenatore era furioso con me perché mi ero lasciata condizionare dalla paura. Mi disse di andare in bagno, guardarmi allo specchio e ringraziare Dio di non essere diventata paraplegica. Sarebbe successo quello se non mi avesse ripreso al volo. Urlando mi disse che mi aveva salvato da una vita sulla sedia a rotelle.
(James Thomas / Flickr / Some Rights Reserved)
Non gli credevo del tutto ma lo feci. Ancora sporca di gesso, indossando ancora le manopole per gli esercizi alla sbarra, andai nel bagno della palestra che odorava di vecchio linoleum e Lysol (un disinfettante) e guardandomi nello specchio ringraziai Dio perché potevo ancora camminare. Tremavo mentre mi guardavo così esile e vulnerabile, con ancora indosso la mia calzamaglia bianca e rossa
Rimasi per qualche minuto in bagno per farmi forza prima di affrontare il mio allenatore. In verità avevo molta più paura del mio allenatore che di imparare quel nuovo esercizio. Se il mio corpo era teso, mentre mi muovevo tra le sbarre dell’esercizio, era più per il peso di questa situazione tossica che per la difficoltà di imparare.
Forse non è così sorprendente che un giorno abbia deciso che ne avevo abbastanza sia dello sport che delle sue forme di controllo emotivo. Era proprio quel giorno di cui parlavo all’inizio, seduta sul tappetino da competizione, nel mezzo del mio allenamento. Era insolito sedersi durante le 4 ore di allenamento. Ma avevo bisogno di tempo per visualizzare quali possibilità avevo. Cercavo di immaginare come sarebbe stato lasciare. Fino a quel momento mi era sembrato impossibile perché amavo quello sport che rappresentava tutti i miei sogni. Ma c’era troppo dolore e ero così esausta.
Il mio allenatore se ne accorse e venne vicino. Si accovacciò, tranquillo. Quando non era furioso era piuttosto paterno. In quel momento era paterno. Mi chiese come stavo. Quando non gli risposi mi guardò dritto negli occhi e mi disse:
Ricordati, se molli, sei solo fallita
Proprio mentre stavo cercando il coraggio per dire “basta così” mentre iniziavo ad immaginare di dire “basta”, proprio in quel momento mi veniva detto che ammettere i propri limiti è il punto in cui inizia il fallimento. E la paura più grande della mia vita, ancora più grande della paura di un danno fisico, è fallire.
Da allora fallire e rinunciare sono inestricabilmente legati nella mia mente.
(James Thomas / Flickr / Some Rights Reserved)
Ho pensato troppo tardi al valore di smettere, di rinunciare e dire “basta così” semplicemente perché è troppo doloroso continuare. Perché siamo esausti. Non significa rinunciare ai nostri sogni positivi; significa permettere a se stessi lo spazio per “essere rotti”. Dare a se stessi lo spazio per sentire e fare un passo indietro soprattutto quando comprendiamo che qualcosa, dentro di noi, ha bisogno di guarire. È possibile che allontanarsi, qualche volta, significhi fare un passo avanti? Un diverso tipo di movimento dove diventiamo più forti nel nostro essere mentre cresciamo nei nostri sogni?
A molti di noi viene insegnato, fin dalla più tenera età, che sforzarsi, lottare, non smettere di perseverare, mettere insieme i nostri pezzi rotti, è un valore. Ci viene detto che siamo forti se ignoriamo le nostre paure, affrontiamo le nostre sfide, anche quando il nostro corpo ci urla di fermarsi e di riposare per rivalutare le condizioni in cui stiamo lottando.
È implicito che abbiamo successo se rimaniamo in tutto ciò in cui abbiamo investito. Forse quell’investimento è una professione, una relazione, una religione, un codice morale o un’immagine di noi. O forse quell’investimento è molto di più che una persona come i nostri investimenti nel capitalismo, nei combustibili fossili o negli armamenti militarti.
Chiudere qualcosa e sviluppare nuovi progetti è un’abilità alla quale non diamo molto credito. Ma mi chiedo se, ad un certo punto, lasciarsi stordire sia il nostro atto più coraggioso.
Il momento in cui rinunciamo non potrebbe essere un punto di svolta sacro se lo si guarda con fede? Quando riconosciamo che ci sono sentimenti, che abbiamo limiti, che non siamo sovra-umani, che a volte sperimentiamo cose che vanno oltre la nostra capacità di andare avanti, non possono essere proprio questi momenti – i momenti in cui riconosciamo il nostro dolore e i nostri limiti – i più coraggiosi? Quando, semplicemente, siamo troppo fratturati?Quando ci rendiamo conto che non potremo mai essere sani nelle circostanze attuali di vita? Quando rinunciare al sentiero che stiamo percorrendo apre ad un percorso salutare?
Credo che un giorno, sarò abbastanza sana da provare di nuovo. Ma per oggi, ascolto le fratture, il sentimento di ciò che significa rinunciare perdono, coraggiosamente, la mia perdita, anziché andare avanti. Mi permetto di essere quello che sono: rotta. Con la fiducia che, forse, rinunciare non è un fallimento ma un orientamento verso se stessi. E che i sogni che cerchiamo di più sono quelli che ci portano a noi, in nuovi luoghi di guarigione, anche quando fuggiamo.
(James Thomas / Flickr / Some Rights Reserved)
BY (@KIMBERLYBGEORGE), GUEST CONTRIBUTOR for On being
Trad. Nicoletta Cinotti © www.nicolettacinotti.net