
Ho sempre pensato che mia madre soffrisse di un eccesso di memoria. Ci sono persone che non dimenticano mail nulla: lei era una di quelle. Sono persone che ricordano tutto perchè la loro memoria è sempre leggermente attivata dalla paura, che è un grande stabilizzatore di memoria e focalizzatore di attenzione. Hai paura e quindi stai più attento, vedi più particolari e li memorizzi meglio. Ovviamente questa deve essere una traccia in sotto-impressione perchè se la paura supera una certa soglia diventa una interferenza anche per i più semplici processi cognitivi.
Quello che ricordiamo va a finire in due magazzini: me li sono sempre immaginati come le rimesse dei treni delle grandi stazioni: un po’ bui e polverosi. In un magazzino finiscono le memorie autobiografiche: quelle che danno vita alle storie su di noi e, in generale, alle narrazioni. I nostri ricordi stanno lì: a volte ben in evidenza e a volte un po’ nascosti (la nostra memoria è un accumulatore seriale ma un po’ disordinato). Nell’altro magazzino vanno a finire le memorie sensoriali, quelle del corpo. Danno vita al nostro linguaggio poetico. Peschiamo da quel magazzino non solo per scrivere poesia ma anche per usare metafore, per toccare il cuore delle persone con le parole. Io vado pazza per questo magazzino. Mi ricorda la soffitta dove andavo in esplorazione da bambina: mi faceva un po’ paura ma era sempre un’avventura perché gli oggetti per me erano animati. Raccontavano le loro storie. Mi domandavo come mai erano finiti lì, se avevano fatto arrabbiare qualcuno. Oppure, se erano rotti, immaginavo come ripararli per riportarli orgogliosa alla vita. (Mi fermo qui perché da bambina avevo una fantasia devastante e non vorrei ammorbarti.)
Da questi due magazzini di memoria – la memoria narrativa e la memoria sensoriale – nascono le parole. Se si rompe l’accesso alla memoria si rompe anche l’accesso alle parole. La memoria narrativa produce le parole della nostra storia e quella sensoriale le parole della vita, quelle che fanno salire le lacrime agli occhi.
Ieri ho portato mia madre dal neurologo: era come se l’accompagnassi all’esame di maturità. Sapevamo entrambe che da questa visita dipendeva cosa fare una volta tornata a casa. Così le ho visto tirare fuori tutti i suoi trucchi per ricordare – quelli che da bambina e da adolescente mi facevano impazzire di rabbia – che facevano sì che non le scappasse mai nulla. Era agitata mentre rispondeva alle domande e ai giochi per valutare la memoria, l’orientamento, e tutto il resto. Io ero lì: ogni tanto mi guardava ed era come se mi dicesse “suggeriscimi la risposta per favore“. E ho scoperto che il suo trucco per ricordare è raccontarsi storie: mette in relazione le parole in modo che si trasformino in una storia. Mischia così allegramente le parole dei due magazzini e i suoi racconti – un po’ poetici e strampalati – funzionano. Ricorda l’essenziale ma non sono più ricordi tenuti insieme dal filo della paura, come quando era giovane, ed era sempre allerta e presente. Sono ricordi tenuti insieme dal filo dell’amore. Vuole rimanere presente perchè ama le persone della sua vita e non vuole dimenticarci.
Anche la pratica di mindfulness è un esercizio di memoria: la memoria tenuta insieme dal filo di un’attenzione affettuosa. Una memoria che passa prima dalla memoria sensoriale e solo dopo arriva – se arriva – alla memoria narrativa, autobiografica. Perchè quando siamo presenti l’attenzione è al di sotto dei pensieri: è nel regno delle sensazioni. Poi, quello che abbiamo sentito, finisce nel magazzino poetico. Se non abbiamo percezioni il nostro magazzino poetico diventa vuoto come un supermercato dopo un’invasione: scaffali scarni e senza merci. E le nostre emozioni si trasformano in pensieri. Perdiamo la dimensione poetica della vita (anche se possiamo ancora fare parecchia lirica!). Praticando mindfulness coltiviamo la memoria: potrei dare la lista, lunga, delle ragioni psico-neuro-fisiologiche perché vale la pena farlo. Non lo farò: per me vale la pena perchè restituisce la pienezza del sentire, della possibilità di amare
Ah, dimenticavo! Quando siamo uscite dal neurologo eravamo entrambe stremate e siamo andate a festeggiare: ha superato l’esame.
L’unica scelta che abbiamo quando invecchiamo riguarda il nostro modo di abitare la vulnerabilità, come diventiamo più grandi, più coraggiosi e più compassionevoli attraverso la nostra intimità con la scomparsa. David Whyte
Pratica di mindfulness: La consapevolezza del respiro ovvero la pratica del ricordo
© Nicoletta Cinotti 2018 La cura del silenzio
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