
Quando ho iniziato a praticare, la ricorrenza della parola gentilezza mi suscitava equivoci e domande. Forse, come molti, confondevo gentilezza con cortesia. In realtà le due parole hanno significati comuni e importanti distinzioni. La cortesia è quel modo, socievole, di mettere a proprio agio gli altri, di essere un buon ospite, di incontrare i favori del nostro interlocutore. D’altra parte la parola deriva da corte e fa esplicito riferimento a quell’insieme di regole sociali del buon vivere.
La gentilezza invece fa riferimento ad una nobiltà d’animo sia ereditata che coltivata: è un modo d’esprimersi ma, soprattutto, è un modo per coltivare certi sentimenti e certe qualità. Così la pratica di gentilezza è proprio l’atto di questa coltivazione. E ho capito che la pratica della gentilezza dovrebbe essere proprio il primo atto di ogni pratica!
Coltivare la gentilezza
Se c’è un terreno in cui la gentilezza può essere coltivata questo è, indubbiamente, il cuore. È lì infatti che nascono i sentimenti e le emozioni. Il nostro cuore però non sempre è sgombro: come un orto può essere invaso da gramigna o occupato da pochi sentimenti. Come qualsiasi terreno, per prepararsi alla coltivazione, va lavorato.
Così la prima azione, per coltivare la gentilezza, è guardare con sincera profondità, a quello che occupa il nostro cuore. Vedere com’è il terreno del cuore e quali piante lo abitano. Vedere, soprattutto se è ampio o accogliente o chiuso e inaridito.
Nel farlo potremo scoprire una delle più strette relazioni che esistono tra il cuore e i pensieri: se tutti i sentimenti sorgono per poi mutarsi in altro, è vero però che i pensieri che l’accompagnano possono avere l’effetto di trattenere a lungo le emozioni che proviamo.
Sorgono, attivano una catena associativa di pensieri, e si trasformano in un dialogo interiore.
Così, se vogliamo coltivare la gentilezza siamo, quasi inevitabilmente, costretti ad esplorare questo connubio: quello tra pensieri ed emozioni.
La gentilezza del lago
Se c’è qualcosa che nutre la gentilezza, questa è la sincerità: qualsiasi bugia diventa cortesia. Guardare la verità trasforma le nostre emozioni e le nostre parole in gentilezza. Nel buddismo c’è una storia che descrive con delicatezza la relazione tra la verità e la gentilezza.
Il cuore è come un lago, calmo e sereno, accogliente e profondo. Le nostre emozioni possono essere come le bestie feroci che vanno al lago per bere. Scacciarle renderebbe le acque mosse e torbide. Rimanere nella calma consapevolezza del lago ci permette di vedere la verità del nostro cuore.
Essere gentili quindi significa anche non essere idealisti: non coltivare un’immagine irreale di noi stessi e della nostra vita.
Conoscersi significa perdere ogni idealismo riguardo a se stessi e agli altri esseri umani, senza eccezioni, ma significa anche audacia di sedersi con quello che troviamo intollerabile, sedersi nel fuoco ardente e bruciare senza scottarsi, senza carbonizzarsi ma vedere invece che finisce e passa e l’esperienza della cenere è fresca morbidezza. Chandra Livia Candiani

La naturale apertura e vulnerabilità del cuore
Il fatto di provare sentimenti che definiamo negativi, emozioni forti e solide come spade, ci fa dubitare della innata qualità di apertura del cuore. Eppure questo è un inganno: un inganno nutrito da due aspetti. Il primo è la solidità che diamo alle nostre emozioni quando le trasformiamo in pensieri e in piani di risoluzione o di vendetta. Il secondo inganno è quello che facciamo quando trasformiamo le nostre emozioni in azioni impulsive. È vero che spesso le nostre emozioni producono scelte disastrose o fallimenti ma questo è un prodotto dei due inganni che citavo sopra. Se riusciamo a guardarle con semplicità e chiarezza, qualsiasi emozione passa e passando ci permette di tornare a quella spaziosità del cuore nella quale incontriamo la nostra naturale bontà e apertura. La gentilezza delle emozioni si coltiva nella fiducia: la fiducia che nasce quando non trasformiamo il dolore in vendetta, il fallimento in conclusione.
Come dice Naomi Shihab Nye “Prima di sapere che cosa sia veramente la gentilezza devi perdere delle cose, devi sentire il futuro dissolversi in un momento come il sale in un brodo leggero”. È la paura del dolore che trasforma la naturale apertura del cuore. Se incontriamo la nostra fatica e il nostro dolore senza solidificarlo potremo lasciare che diventi gentilezza, per le nostre e per le altrui ferite.
Una pratica relazionale
La pratica della gentilezza, anche se richiede di sederci di fronte a noi stessi, non ha mai noi come fine ultimo. Ci apre alla relazione con l’altro e alla felicità che nasce dal comprendere come siamo tutti sulla stessa barca. La chiusura del cuore ha due vittime: noi stessi, perché ci fa perdere la fiducia nelle nostre possibilità, e le nostre relazioni perché ci fa dividere anziché unire, separare anziché mettere in contatto. È per questo che spesso il nostro dolore solidificato non viene percepito come interno ma come difficoltà esterna che viviamo nelle relazioni: da quelle più significative a quelle più fugaci e passeggere. Ci rende estranei e incomprensibili, perché vela la comprensione profonda di noi stessi.
Così gli altri sono uno strumento inevitabile ed efficace nella pratica della gentilezza. Nell’Insight Dialogue la decliniamo attraverso precise istruzioni di meditazioni che scorrono come sottili rivoli a ripulire i canali della compassione e della relazione: nutriamo la crescita dell’intimità. Una intimità che non è solo quella storica delle nostre relazioni ma che è quella capacità di essere presenti a se stessi e all’altro, proprio nel momento in cui si verifica il contatto.
La vergogna
Ogni giorno, negli ascolti del mio lavoro, mi rendo conto di quanto la vergogna sia il più grande ostacolo alla gentilezza. Ci fa perdere il senso di rispetto e dignità, il contatto con la nostra nobiltà. Ci fa credere di essere indegni e inadeguati, proprio in quel luogo dove invece avremmo solo bisogno di essere amati, con semplice verità.
È la vergogna che ci rende insinceri, è la vergogna che ci fa nascondere e quindi ammalare. Perché forse la vera malattia di cui soffriamo è proprio quella che si declina nel coprire e velare parti di noi. Tacere non è silenzio: spesso è nascondere.

Non è il mio silenzio e non è il silenzio di qualcun altro, ma incontrarsi e fare insieme silenzio fa nascere qualcosa. Qualcosa che resta. Chandra Livia Candiani
© Nicoletta Cinotti 2022
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