
Mai come quest’anno ho lavorato con persone affette da una malattia oncologica. Mai come quest’anno ho incontrato genitori che non sapevano più che fare con i loro figli. Non erano malati: avevano ricevuto una diagnosi di DSA (Disturbo specifico dell’apprendimento) o avevano un BES (Bisogni educativi speciali). O attraversavano una fase di sviluppo difficile. E la loro reazione (dei genitori intendo) era drammatica. Perché associo queste due situazioni così diverse? Perché, indipendentemente dalla minaccia che sta dietro la diagnosi, ho capito, e visto direttamente, che le diagnosi, vengono accolte in modo estremamente personale.
Cosa succede quando arriva una diagnosi?
Quando arriva una diagnosi la nostra attenzione si restringe prevalentemente all’area indicata dalla patologia. La vita tende a diventare più piccola o, forse, tende ad essere tutta occupata dalla diagnosi. In parte sappiamo che questa è una risposta evolutiva. È funzionale alla sopravvivenza saper vedere e affrontare un problema. Per farlo è importante non distrarsi e rimanere focalizzati.
Se questo offre dei vantaggi, offre anche un grande, grandissimo svantaggio: vediamo solo quello che non va e ci dimentichiamo di mettere a fuoco quello che, invece, funziona nella nostra vita. Questo è vero sempre. Con i figli è vero il doppio. Non solo perché li amiamo ma perché, molto spesso, le loro diagnosi risvegliano una parte di noi vulnerabile. Quando un genitore combatte con un proprio tema emotivo, può diventare estremamente sensibile agli aspetti difficili dello sviluppo del proprio figlio. Che siano o no connessi ai propri problemi emotivi. Il risultato finale è che tendiamo ad enfatizzare la debolezza e a passare sopra ai punti di forza. Il genitore si identifica con il problema del figlio e finisce per cristallizzarlo. Proprio come se fosse una minaccia alla sua vita (futura).
La storia del gorilla
Qualche anno fa un esperimento sull’attenzione selettiva ebbe un grande successo. È un breve video in cui si chiede di contare i passaggi di pallone che avvengono in un gruppo di persone. Ad un certo punto entra in scena una persona travestita da gorilla ma la maggior parte delle persone che guardano il video, totalmente catturati dal contare i passaggi, non vedono cosa sta succedendo. Chi conosce il video e si accorge del gorilla non si accorge che qualcosa cambia nel numero dei giocatori o nello sfondo. Questo esperimento sorprende sempre: la nostra attenzione selettiva è molto forte nel discriminare gli stimoli che è importante vedere e quelli che sono secondari. Quando abbiamo a che fare con una diagnosi la nostra attenzione selettiva coglie solo i segnali di malattia e dimentica di “vedere il gorilla”, di vedere qualcosa di diverso che entra nel quadro e che può portare una novità.
Le parole per dirlo
Le parole, lo sappiamo bene, hanno un grandissimo impatto. Quando ci troviamo di fronte ad una diagnosi hanno un impatto raddoppiato. Finiamo quindi per declinare le parole del disagio, della malattia, dei sintomi e ci dimentichiamo di tante altre parole che, invece, sono legate alla salute, al benessere. Le etichette, preesistenti alla diagnosi, iniziano a rafforzare le parole che ascoltiamo e diventano una specie di insegna al neon sempre accesa. Dietro a questa insegna al neon la domanda “Cosa ho sbagliato?”, seguita a ruota da “Che senso ha tutto questo?”.
Non vorrei sembrare superficiale ma non ci ammaliamo perché sbagliamo qualcosa. E quando ci ammaliamo perché abbiamo avuto comportamenti lesivi non ci facciamo nemmeno la domanda: sappiamo benissimo che cosa abbiamo sbagliato ma il punto non è la colpa. Quella eventualmente cerchiamola dopo aver risolto il problema. Pensare in termini di colpa ci rende tutto più grave e greve.
Stessa cosa vale per il senso. Qualche volta cogliamo immediatamente il senso della nostra esperienza. Molte altre volte devono passare mesi se non anni per capire che senso ha avuto per noi quella situazione. È difficile saperlo prima, appena arrivata la diagnosi, qual è il senso di quello che ci succede. Molto spesso se rispondiamo all’inizio dell’esperienza attribuiamo un senso legato alla colpa. E non ha davvero nessuna logica sentirsi in colpa perché abbiamo un problema. Prima o poi capita a tutti!
Che aiuto può dare la mindfulness?
Che la diagnosi riguardi i nostri figli o noi stessi le qualità dell’esperienza mindfulness possono essere un aiuto fondamentale per fronteggiare la situazione. La mindfulness ci mostra che, se ci apriamo alla nostra vita con una mente da principiante, ogni momento può contenere il seme del cambiamento.
Quando abbiamo un problema il nostra panorama può restringersi. Tutta la nostra attenzione può essere catturata dal preoccuparsi sul problema. Crediamo che l’unica cosa importante sia andare oltre quella difficoltà. Questo può portare ad uno stato di assorbimento che fa percepire molto intensamente il problema. Quando questo accade vedere le cose da una prospettiva più ampia può aiutare. Comprendere che molte persone hanno attraversato una difficoltà simile alla nostra o addirittura peggiore, può offrirci un senso di condivisione. Dalai Lama
Le sette attitudini della mindfulness
Jon Kabat Zinn parla di sette attitudini proprie dell’esperienza di mindfulness: non – giudizio, pazienza, mente del principiante, fiducia, non sforzarsi, accettazione e capacità di lasciar andare. Questo può essere un modo per stare nella diagnosi che abbiamo ricevuto. Non giudicare quello che succede, accogliendo con pazienza le inevitabili attese. Fidarsi che possono esserci aspetti positivi nella nostra vita contemporaneamente ad aspetti difficili. Accettare quello che, al momento, non è possibile rifiutare perché è già avvenuto e lasciar andare quello che non è possibile cambiare. In fondo accettazione e capacità di lasciar andare sono due abilità strettamente correlate. Forse se dovessimo mischiare insieme tutti questi ingredienti ne otterremmo uno: la gentilezza. Affrontare con gentilezza quello che sta succedendo. Abilità che i genitori perdono velocemente con i figli, soprattutto se la situazione è ripetitiva.
La mindfulness poggia su un potente fondamento di compassione e gentilezza. Queste qualità fondamentali non sono di facciata ma costituiscono il terreno di tutte le pratiche di consapevolezza e delle loro applicazioni cliniche. La parola mindfulness implica heartfulness: non c’è consapevolezza senza cuore. Susan Bogels
© Nicoletta Cinotti 2019
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