Come altrove allora, sbattere gli stivali sulla soglia
appendere i berretti e dopo scuotere i giacconi,
quando fuori si avvicina il buio e la neve
è una musica sommersa. L’odore delle cortecce
resta per sempre sulle mani, anche se brucia
come una pagina scritta la tua voce che non ricordo
e nella mia trova riparo, dolce e arresa come un diminutivo.
Da allora ad oggi il mio guardarti è sempre quello:
afferra e propaga la luce pullulante della neve nel buio
in attesa di scorgere un’ombra, un soprassalto
che, col tuo, segni il mio arrivo. D’accordo,
le cose perdute fanno grandi le cose salvate
e grande, paterna, resta la tua assenza ma sapessi il graffio, il taglio nella tela, il vuoto che riempie.
È come se ogni volta accendessi il fuoco per te,
da qualche parte, là fuori, nella neve e nel buio
mentre alzi il bavero e ad ogni passo ti avvicini alla soglia
dove trema il fuoco nell’aria di solitudine
e nello strappo tuo figlio si compie.
Pierluigi Cappello Foto di © k-ro calivar
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