
Ricordo molto bene quando è nato mio fratello: avevo otto anni e tutti l’aspettavano con grande trepidazione. Io no. Sapevo che avrei perso il ruolo di maschio di casa e non ero affatto contenta di diventare femmina. Mi sembrava che questo passaggio da maschio a femmina avrebbe comportato parecchie perdite.
Certo potevo continuare ad arrampicarmi sugli alberi e a fare a botte – ho continuato a farlo fino a che non ho incominciato a perdere regolarmente intorno ai tredici anni – certo potevo continuare a pensarmi come indipendente e tenace, coraggiosa e resistente ma non sarei stata più il maschio di casa. Perché adesso ne era arrivato uno vero.
Ho accettato la trasformazione in femmina con molta riluttanza. Dentro di me facevo l’elenco degli svantaggi. Le donne sono considerate meno. Hanno assurde passioni amorose come Anna Karenina e Madame Bovary. Sono oggetto di derisione quando affermano certe verità. Hanno meno potere. Guadagnano meno soldi. Devono pulire la casa. Devono essere pazienti ed accoglienti. Hanno meno libertà. Devono difendersi dai predatori sessuali. L’elenco era lungo e mi sembrava solo una lista di perdite e rinunce. Io non volevo essere una femminista – che di per sé mi sembrava già una ammissione di subalternità – volevo proprio essere un uomo. Il senso del paradosso non mi coglieva affatto: quando sono convinta, sono convinta!
Poi ho avuto un figlio e la prospettiva si è fatta molto più interessante. Anche se non ho mai abbandonato il ruolo di “uomo di casa”.
Adesso, da più parti, stiamo iniziando a cambiare la forma maschile, usata come neutro nel discorso verbale e scritto, in forma femminile. Negli Stati Uniti è già così: il femminile è diventata la prospettiva dalla quale si parla. In Italia è ancora prevalentemente quella maschile anche se qualche esempio inizia ad esserci anche da noi. Mi sono domandata perché non lo facevo anch’io. Forse, ho pensato, è una forma di obbedienza alla tradizione linguistica in cui ho imparato a scrivere. Forse ho paura di discriminare gli uomini. Ho paura che non si sentano rappresentati da una forma verbale rivolta al femminile (senza tenere affatto conto che anche le donne potevano sentirsi discriminate). Poi ho capito: quello è il nucleo della mia resistenza maschile. Non sono ancora diventata interamente una femmina. Anzi l’invecchiare mi ha ridato quella libertà che hanno le bambine.
Così lavorerò su quell’ultimo nucleo di resistenza e può darsi che inizi a scrivere al femminile. Lo faccio per onestà, perché so che dietro il mio rifiuto di essere donna c’è ancora nascosto il mio rifiuto per la vulnerabile identità femminile. Perché la vulnerabilità fa paura ancora, anche se ho imparato ad amarla e a vedere che è dalla vulnerabilità che spuntano i fiori.
Progrediamo tutti noi quando riconosciamo quanto siano resilienti e straordinarie le donne intorno a noi. Rupi Kaur
Pratica di mindfulness: Ascoltare profondamente
© Nicoletta Cinotti 2019 Verso la self compassion ovvero come imparare a volersi bene