
Ieri ero in un ospedale. Di quelli moderni in cui ti sembra di essere in un film americano, con le infermiere con divise eleganti, il banco accettazione che sembra la reception di un grande albergo, le direzioni indicate da strisce colorate sul pavimento e cartelloni alle pareti così che sai sempre come muoverti sia se ti guardi i piedi che se tieni lo sguardo ad altezza degli occhi.
Un ospedale moderno, nuovo, dove per entrare ti fanno vestire come se dovessi accedere alla sala operatoria. Comunque, a parte tutte queste apprezzabili meraviglie, un ospedale. Dove le persone vanno perché sono ammalate in vari ordini di gravità.
Poi improvvisamente, è successa una cosa. Camminando nel corridoio ho guardato dentro una stanza. Era una stanza con una grande finestra. Seduta alla finestra una paziente guardava fuori. Era seduta con grazia, un po’ abbandonata sulla sedia e guardava fuori. All’inizio mi sono fermata perché la scena mi ricordava un quadro ma non riuscivo a farmi venire in mente di quale pittore fosse. Passavo in rassegna diverse ipotesi. Poi questa prima curiosità è passata sullo sfondo. Lei si è accorta che la stavo guardando, che mi ero fermata per guardarla perché il suo guardare fuori era così intenso e così forte che per un momento è come se fossi stata anch’io a guardare fuori accanto a lei. Sembrava che guardasse tutta la sua vita, lì, dall’alto di quel terzo piano, da quella bella finestra grande come mezza parete. Per un attimo anch’io ho guardato come lei. Come lei ho visto la mia vita, le giornate, la corsa, il vuoto e il pieno. Ho visto l’assurdo che mai, come in un ospedale, appare con tutta la sua forza. L’assurdità del credere che sia possibile sapere dove stiamo andando e, invece, possiamo sapere solo dove ci siamo fermati. Credo di essere rimasta ferma un paio di minuti. Poi è arrivata un’hostess, cioè un’infermiera, che con gentilezza mi ha chiesto, “Dove deve andare?”. Avrei voluto risponderle che non lo sapevo con certezza, che forse volevo rimanere esattamente lì ancora per un po’, a guardare la mia vita come la donna seduta alla finestra. In fondo cosa c’è di più generoso di una finestra?
“A volte ci si perde ma vede basta seguire i segnali”, ha proseguito lei, spingendo leggermente avanti il corpo come se volesse, così facendo, rimettere in moto anche il mio. “Si – le ho risposto – a volte ci si perde e allora bisogna fermarsi per capire dove siamo” e con un sorriso ho proseguito. Non volevo ammettere che mi ero persa a guardare la signora. Preferivo che credesse che non trovavo la Sala Medici. A volte nascondiamo la verità. Non per timore, non per vergogna ma perché può essere capita solo senza parole.
Lasciatevi emozionare da questa sfacciata, quasi violenta fertilità della natura, non camminate torpidi e distratti in mezzo a tanta creatività. Fate che aprile non passi invano nella vostra vita. Maria Venturini
Pratica di mindfulness: L’eco di un altro sentire
© Nicoletta Cinotti 2021 Il protocollo MBSR