
Ci sono delle promesse che facciamo a noi stessi. Sono quelle più difficili da tradire perché sappiamo che se lo facciamo diventa difficile guardarsi allo specchio la mattina. Quando ho iniziato a fare la psicoterapeuta mi sono promessa che sarei stata fedele alla cura e non alla teoria. Sembra una distinzione minima ma non lo è. Se si è fedeli alla teoria si cerca di leggere tutto da una prospettiva che diventa più importante della persona che curi. I suoi disagi sono visti dall’ottica della tua teoria e servono a confermarla. Manca la prima regola della scientificità: il principio della contraddizione, quello che dovrebbe dirti che se la tua teoria non è confermata dai dati non sono i dati che sono sbagliati ma la tua teoria. Scusa il preambolo: era giusto per dirti che se vogliamo curare davvero dobbiamo essere sempre disponibili a cambiare idea perché la cura ha bisogno di onestà.

La compassione implicita della mindfulness
Quando Jon Kabat-Zinn strutturò il protocollo MBSR lo fece sulla base della tradizione vipassana usando i Satipatthana Sutta come fondamento del programma in otto settimane. Scelse anche, all’inizio in maniera intenzionale, di non fare pratiche esplicite di compassione o gentilezza amorevole, di gioia compartecipe ritenendo che il riconoscimento della sofferenza e l’invito ad accettare fossero stimoli adeguati per far sorgere questi stati mentali in maniera implicita. Così la pratica di Metta o gentilezza amorevole non è presente nel protocollo standard e si lascia alla sensibilità dei singoli insegnanti valutare se e quando sia opportuno inserirla nel programma. Io stessa per molto tempo non l’ho inserita esplicitamente perché mi sembrava che potesse ferire la sensibilità di chi ha un orientamento ateo e la sensibilità di chi ha un orientamento religioso. Insomma mi sembrava che fosse una pratica troppo evocativa per essere inserita in un programma per la prevenzione dello stress (qui ti racconto qualcosa)

La compassione esplicita della self-compassion
La consapevolezza è lama giusta ma le lame, se usate male, tagliano anche quello che non dovrebbero tagliare. Così nella mia pratica di mindfulness ho sentito quanto bisogno avevo di iniziare a guardare con benevolenza alla mia vulnerabilità e con benevolenza ancora maggiore alla vulnerabilità degli altri. A volte è difficile guardare le cose così come sono. Facciamo errori in buona parte inconsapevoli ma le loro conseguenze sono, invece, evidenti e, con il tempo, sempre più evidenti. Molte persone che arrivano ai programmi mindfulness hanno errori importanti da perdonarsi, disattenzioni che hanno avuto conseguenze significative per la loro vita e per la vita delle persone che amano. La consapevolezza ha bisogno di essere nutrita dalla gentilezza. Come dice Pema Chodron, abbiamo bisogno di precisione – la precisione che ci viene data dalla consapevolezza – e di gentilezza perchè altrimenti la precisione alimenta l’autocritica e la severità. È così che sono arrivata alla self-compassion: con l’intenzione di offrire una cura esplicita per il nostro e altrui dolore.
La mindfulness mi permette di diventare consapevole, la self-compassion di portare sollievo al dolore.
La palude
Ogni protocollo ha degli incontri chiave. Incontri in cui saltano fuori i nodi centrali rispetto al tema trattato. Nel programma di Mindful Self-Compassion questi nodi saltano fuori al quarto incontro, quando ci troviamo di fronte alla nostra voce critica e alla nostra voce compassionevole. In teoria dovremmo incontrare entrambe. In pratica, a volte, la voce autocritica viene fuori con tutta la sua forza abusante. Una forza abusante per due motivi: perché noi siamo stati abusati e feriti dalle critiche e dai rimproveri ma, anche, siamo convinti che quella voce autocritica ci ha, in qualche modo, salvato e che la self-compassion, invece, è troppo blanda e troppo dolce. Una forma imperscrutabile ma pericolosa di auto-indulgenza. Noi vogliamo essere vulnerabili ma fieri e non vulnerabili ma dolci. Temiamo che l’abuso continui se siamo troppo dolci.
Così nel quarto incontro faccio sempre i conti con il motto ippocratico: primo non ferire (Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa). perché può capitare che le persone siano sofferenti e in difficoltà e io so che è difficile per me mettere gli altri di fronte alla verità. Fortunatamente mia nonna non era ippocratica. Era una donna che aveva avuto sei figli, un marito cardiopatico, un figlio morto alla nascita e una famiglia partigiana. Era una donna spiccia e che conservava sempre la lana che serviva per rammendare i calzini che faceva ai ferri ai figli. La conservava anche dopo che i calzini erano stati buttati via per il troppo uso (ma questa è un’altra storia). In ogni caso mia nonna era spiccia e diceva che il medico pietoso fa la piaga puzzolente. Un’idea che suona quasi opposta a quella del raffinato Ippocrate. Comunque io ho entrambe le voci dentro: quella di Ippocrate e quella di mia nonna che aveva un’altra regola ferrea: non cucinare mai più del dovuto e non permettere a nessuno di buttar via il cibo. Se una cosa entra nel tuo piatto, deve finire nel tuo stomaco!

La compassione implicita
la questione non interessa solo me se dei ricercatori spagnoli hanno pensato di valutare le risposte ai partecipanti ad un MBI (Mindfulness based Intervention) e un CBI (Compassion Based Intervention). Cosa hanno scoperto?
La Mindfulness migliora la consapevolezza e facilita la capacità di mantenere distinzioni efficaci tra Sè e gli altri riducendo i rischi collegati al contagio emotivo. Il contagio emotivo è l’invasione delle emozioni altrui nella nostra sfera emotiva. Un contagio emotiva ch è particolarmente forte in chi fa una professione educativa o di cura. Gli interventi MBI sono utili per ridurre l’ansia e, in senso generale, la reattività allo stress

La compassione esplicita
Gli interventi basati sulla compassione (CBI) hanno una efficacia maggiore sulle difese emotive – soppressione, rimozione – e aumentano la motivazione alla compassione e alla self compassion riducendo la sensazione di minaccia relativa alle emozioni dolorose. Migliora anche la capacità di rispondere alle difficoltà emotive.
Anche se entrambi gli interventi sono efficaci nel ridurre i sintomi dello stress e della depressione, gli interventi basati sulla mindfulness sembrano più efficaci nel ridurre l’ansia. In entrambi i casi c’è un miglioramento nella felicità percepita e nella soddisfazione per la propria vita (Baer et al., 2012; Hollis-Walker & Colosimo, 2011).
Questi risultati confermano la complementarietà degli interventi basati sulla mindfulness e sulla self compassion, dove la prima offre un metodo implicito e la seconda un metodo esplicito per proporre lo sviluppo di atteggiamenti compassionevoli, per ridurre lo stress legato alla dis-regolazione emotiva e per migliorare la soddisfazione nei confronti della propria vita.
Io sottolineo un aspetto: sono programmi complementari perchè l’accettazione ha bisogno di consapevolezza e self-compassion .
L’happy end
Tutto questo per dire che è normale attraversare – in genere nel centro dei programmi – un momento difficile. È quello che il vecchio Freud chiamava “il ritorno del rimosso”, e la donna delle pulizie chiama, “la polvere sotto il tappeto”. Pensare di togliere la polvere senza sporcarsi è un po’ troppo perché quelle pulizie non possiamo farle fare a nessun altro se non a noi stessi. L’happy end è che incontrare il rimosso rende più stabili e fiduciosi nelle proprie ricorse. Anche incontrare i draghi fa paura ma quando ci accorgiamo che quei draghi erano resi minacciosi dalla nostra paura ci rendiamo conto che spesso è l’ansia che ingigantisce la minaccia delle emozioni
La compassione e la tana della tigre

Il monastero più famoso del Bhutan è la Tana della Tigre (Taktshang Goemba), uno dei siti religiosi più venerati del Paese.La leggenda racconta che questo luogo venne raggiunto in volo da Guru Rinpoche a cavallo di una tigre, con l’obiettivo di sottomettere un demone.
Una leggenda alternativa narra che la moglie di un imperatore, conosciuta col nome di Yeshe Tsogyal, volle diventare discepola del Guru Rinpoche (Padmasambahva) nel Tibet. Ella si trasformò dunque in una tigre e portò il Guru sul suo dorso dal Tibet a Taktsang. Questo profondo legame con la figura della tigre espresso in entrambe le leggende fece sì che il luogo venisse consacrato a questa divinità. A volte le nostre emozioni sono come tigri: addomesticarle ci permette di usare la loro energia per crescere. Se le addomestichiamo con la crudeltà possono sempre rivoltarsi contro di noi. Se le addomestichiamo con la dignità e il coraggio rimangono nostri alleati.
© Nicoletta Cinotti 2021