
Forse la consapevolezza che non siamo identità unitarie ma la somma di parti contrastanti, è ormai diffusa. Per me accorgermene, non solo nel mio lavoro come professionista, ma come persona è stato una vera svolta. Come potevo mettere insieme tratti affettuosi e severi, capacità di aspettare e frettolosità, bisogni sociali e desiderio di solitudine, se non proprio pensando che erano parti diverse di un insieme sfaccettato che costituisce la nostra identità. Malgrado questi aspetti fossero diversi, nel tempo, mi sono accorta che, anche le parti più autocritiche, avevano una buona intenzione. A volte difficile da riconoscere se non dopo una esplorazione attenta. Si potrebbe dire – per riassumere con un’immagine – che volevano, a modo loro, proteggermi.
Avete presente certi rimproveri dei nostri genitori che ci sono sembrati troppo duri o troppo aggressivi? Spesso finivano con la frase “Lo faccio per il tuo bene“. Ecco anche alcune nostri parti interne sono così. Lo fanno per il nostro bene ma lo fanno tanto bene che ci fanno male.
Come fai a proteggermi?
Come ti ho raccontato in “Scrivere la mente” guardare alle nostre parti interne da questa prospettiva ci permette di iniziare un dialogo. Così, quando ho iniziato a parlare con la mia voce e ho iniziato ad ascoltare in questo modo la voce interiore delle persone che curo, mi sono accorta che c’era un filo comune: sono voci che suscitano vergogna per proteggerci dalla possibilità di una critica esterna. Ricordo una persona, in forte sovrappeso, che faceva continuamente battute – ad alta voce – sul suo corpo e sulla sua forma fisica. Chiedendole perché fosse così crudele mi rispose “Faccio così in modo che a nessuno venga in mente di fare battute su di me perché le faccio già io. Preferisco essere ferita da me invece che da una persona esterna”. Ecco spesso le nostre parti dure funzionano nello stesso modo: immaginiamo la critica peggiore che potrebbero farci e ce la facciamo.
Possiamo dire che siamo abitati da tante voci e possiamo imparare a riconoscere e dare un nome ad ognuna di queste voci. Elsa, ne riconosceva tre. La più forte era quella giudicante, che le diceva che era indegna, che la criticava per ogni minimo errore. Ma non era l’unica voce: flebile e timida c’era anche la voce di chi veniva criticato. Lei stessa che cercava di obiettare alla severità di quei rimproveri con una visione alternativa delle cose. E poi, da un po’ di tempo, via via più sicura, c’era un’altra voce che provava a consolarla. Che provava a consolare entrambe, la bisbetica e la vittima, il carnefice e il perseguitato.
È stato solo quando siamo riuscite a distinguere questi personaggi che si agitavano nella mente che le sue azioni hanno smesso di essere compulsive. È stato allora che ha smesso di fare di tutto per essere perfetta e ha cominciato a vedere la bellezza, piena di sfumature originali, della sua vita. Scrivere la mente
Tutto ha un peso
Le persone che soffrono di disturbi alimentari rappresentano bene questo conflitto interiore: una parte di loro controlla severamente le oscillazioni di peso – arrivando ad indurre il vomito – e un’altra parte si manifesta indulgente e comprensiva verso il bisogno di gratificazione alimentare, inducendo a mangiare troppo. La parte critica cerca di gestire una minaccia nascosta che gli altri non riescono a percepire proprio perché è interiore: la minaccia costituita dalla possibilità di non essere più amabile se il loro peso esce dal range consentito
Nella storia di Elsa – che racconto in Scrivere la mente – la madre e la zia diventano, in modo alternato, la parte che critica e la parte che gratifica. Gratifica anche quando il comportamento di Elsa è eccessivo: lavora troppo e si sacrifica ben oltre il necessario. Questo, anziché essere criticato, è apprezzato. Non è così solo per Elsa: è così per tutti noi. Una parte ci critica e una parte ci blandisce e convince a fare qualcosa di cui poi ci pentiremo. Ma il danno viene realizzato solo in seguito, spesso quando è troppo tardi.
Qualche giorno fa ho fatto il controllo periodico per l’osteoporosi cambiando medico perché desideravo un altro parere. Durante tutta la visita – in sotto impressione perché è un uomo estremamente educato – passavano frasi come “perché ha aspettato così tanto?”, “dov’è stata finora?”, “cosa crede di fare con le sue terapie non titolate correttamente”?. Sono uscita da lì con un misto di felicità e terrore. Felice di aver trovato qualcuno che prendeva sul serio i miei dubbi. Terrorizzata dalle conseguenze della mia procrastinazione: quella che mi ha fatto credere che potessi risolvere il problema in modo dolce. So bene che quella parte non è solo naturista, salutista e alternativa (cose che mi appartengono): è anche evitante. Non posso che dire che tutto questo riguarda la mia famiglia. Non quella esterna ma quella interna.
La famiglia esteriore
Ogni famiglia è un sistema e, come tutti i sistemi ha gerarchie – ranking – ruoli e convinzioni che alimentano modalità ripetitive di relazione. Spesso andiamo per opposti, così, nella nostra famiglia reale, possiamo essere stati troppo coinvolti o troppo esclusi, troppo invischiati o troppo abbandonati. Io appartengo al gruppo dei marginali: non troppo dentro, mai del tutto fuori. Per me l’affermazione personale è stata un modo per dimostrare alla mia famiglia esterna che, anche se ero esclusa, avevo un valore. Valore che, per loro, è sempre stato evidente e non per questo centrale. Semplicemente – per dinamiche familiari – il mio ranking non sarebbe cambiato nemmeno se avessi vinto il Nobel. Lottare per affermare il mio valore era un modo per tenere viva un’illusione: alla fine mi avrebbero voluta dentro. Non era così e oggi dico, va bene così. Questa storia non è personale: è la storia di molte famiglie. Per un figlio o una figlia marginale ce n’è sempre una invischiata e invischiante. Per ogni figlio troppo fuori ce n’è sempre uno troppo dentro in una dinamica di relazione che sembra inamovibile.
Ricordo ancora mia nonna che si illuminava ogni volta che veniva nominato l’unico figlio che non si occupava direttamente di lei e che riceveva, invece, tutta la sua generosa gratitudine (con conseguente nervosismo degli altri figli, presenti ma mai valorizzati). Le famiglie funzionano così e sono sistemi relativamente stabili. Pensare che qualche comportamento nostro cambi la dinamica è, molto spesso, una illusione che ci spinge a comportamenti non salutari.
Le conversazioni nascoste
La nostra mente chiacchiera in continuazione e già questo dovrebbe farci capire che siamo un condominio interiore piuttosto affollato e che, nella stessa giornata, passiamo da uno all’altra delle nostre sub-identità in modo tanto fluido da esserne vagamente consapevoli. Spesso questo chiacchiericcio è attorno a dubbi e dilemmi. Possiamo essere convinti che saremmo felici se incontrassimo il partner adatto e non tollerare l’intimità. Avere il desiderio di qualcosa e, nello stesso tempo, averne paura. Voler fare un ritiro e spaventarsi all’idea di farlo. Fare di tutto per partecipare e, improvvisamente, sabotare la nostra partecipazione per averne un sollievo momentaneo e ritornare poi nella consueta ansia o disperazione. Insomma, siamo in un conflitto interiore che spesso si può riassumere con “Vorrei ma non posso” oppure “Voglio e non voglio”; “ci sono e non ci sono”; “desidero essere amata e non sono amabile” e così via, in un’altalena che ci lascia, sostanzialmente, bloccati.
Come diceva Alessandro – una delle storie che riporto in Scrivere la mente – “Nel giro di 10 minuti posso passare dall’essere un professionista capace e rispettato all’essere un bambino insicuro e capriccioso che si relaziona in modo prepotente con collaboratori e clienti. Lì per lì mi sento meglio se ottengo quello che voglio. Dopo mi sento male e concedo riparazioni di cui mi pento successivamente”
Una delle cose che più limita la nostra capacità di auto-accettazione è avere una visione unitaria della nostra personalità. Questo accade perché quando i pensieri si uniscono alle emozioni tendono a cristallizzare la nostra visione delle cose e a offrirci una generalizzazione di noi e di ciò che viviamo. L’idea che non possano esserci contraddizioni, aspetti divergenti, sfaccettature multiple, ci porta a nutrire parti assassine che cercano di eliminare le nostre incongruenze. Il punto invece è includere. Scrivere la mente
Cosa fare? Osservare invece che evitare di essere consapevoli di questi aspetti è il primo passo. Riconoscere le loro istanze – positive e negative – è il secondo passo. Il terzo passo è occuparsi della propria famiglia interiore, piuttosto che investire energie per cambiare il nostro status in quella esteriore.
La famiglia interiore
Le dinamiche della nostra famiglia esterna hanno dato vita alle dinamiche della nostra famiglia interiore. Le nostre parti non sono solo quello che sembrano – superficialmente buone e cattive – e non possiamo gestirle come se fossimo il comandante di una barca che punisce e gratifica, come se potessimo tagliare via quello che non vogliamo. Ogni parte ha avuto un ruolo nella nostra famiglia interiore e se non lasciamo che venga fuori anche l’utilità di questa parte non riusciremo ad uscire fuori dalla dinamica che attiva. Anche le nostre parti distruttive hanno avuto una funzione, sono state di aiuto. Solo l’hanno fatto in un modo che andava bene per il passato e non va più bene per il presente. Perché queste parti non hanno fatto aggiornamenti – upgrade – alla nostra vita attuale. Il Reparenting ci offre questa possibilità: la possibilità di amarci davvero. Non ci sono parti “cattive” e parti “buone”. Ci sono aggiornamenti da fare al presente: tutte ci hanno garantito di arrivare fin qui. Tutte meritano di essere ascoltate. E se la soluzione fosse semplicemente aiutare queste parti liberandole dai loro ruoli e dalle loro paure?
Vorrei davvero che ai bambini venisse, per prima cosa, insegnato ad amarsi. Non in modo narcisistico ma reale. Forse è per questo che il reparenting mi sembra essenziale e il Mindful Parenting un atto di formazione civile. Una mia amica diceva sempre che per essere in pace con gli altri bisogna essere in pace con sé stessi. È vero. È anche vero che per amare davvero gli altri bisogna amare sé stessi. Altrimenti è un dare con la speranza di ricevere. Se c’è un peccato che ho fatto è questo: ho dato con la speranza di ricevere. Ho ricevuto tantissimo e ne sono grata. Ma quell’amore che ho avuto in cambio non colmava i vuoti che l’assenza di amore per me produceva e lasciava. Quei vuoti aspettavano me. Ora li guardo, sorpresa di essere stata così distante dalla persona che avevo più vicina.
Abbiamo bisogno di riportare la comunicazione tra i membri della nostra famiglia interiore, tra le parti del nostro panorama interno, cercando nuovi ruoli e nuovi modi di realizzare la protezione che finora è stata portata avanti con vecchie modalità difensive. Abbiamo bisogno di sviluppare un dialogo non coercitivo con noi stessi. Anche il nostro pessimismo ha un intento benevolo: dobbiamo solo scoprire quale e offrigli mezzi salutari per realizzarlo. In questo modo – attraverso il reparenting – facciamo nello stesso momento due cose: svincoliamo le nostre risorse mal utilizzate e consoliamo le nostre parti ferite. Nel farlo potremmo sorprenderci di noi stessi: incontriamo più self compassion di quella che credevamo di avere.
La nostra voce autentica, il nostro vero Sé
Come molti colleghi psicoterapeuti ho creduto per anni che lo sviluppo di un Sé sano, in molti casi, potesse avvenire solo attraverso una relazione terapeutica lenta e scrupolosa, sviluppando, a volte con molto sforzo, un Sé adeguato. Oggi ho una visione diversa. Sono convita che tutti noi abbiamo la possibilità di passare dal disagio alla calma in pochi secondi guardando al nostro Sè come ad un insieme di parti separate che possiamo includere e abbracciare, con totale spontaneità. Ho la convinzione che ci siano più possibilità di quelle che credevo e che queste possibilità stiano nello sviluppare modi per esplorare la nostra famiglia interiore. Modi per conoscere, riconoscere e nominare le parti del nostro Sé. È uno sviluppo che non richiede tempo ma che richiede presenza. È uno sviluppo sempre possibile perché la nostra famiglia interiore è sempre con noi.
Questa consapevolezza ha portato guarigione, creatività e miglioramento in molte persone. Ha dato loro autonomia e libertà. Quando passiamo da testimoniare passivamente le parti della nostra famiglia interiore ad entrare in relazione con questi aspetti con creatività può emergere una compassione, lucidità e una saggezza che è una vera cura alternativa. Sempre disponibile perché è nostra responsabilità portarla avanti. Io sono, in questo, un accompagnamento e non più il responsabile timoniere della vita delle altre persone. Un ruolo che rende, a tutti, il giusto riconoscimento.
© Nicoletta Cinotti 2020
https://www.nicolettacinotti.net/eventi/reparenting-ritiro-di-mindfulness-con-susan-bogels-e-nicoletta-cinotti/