
Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Non per dimostrare che i danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve trovare un linguaggio – con parole, con immagini, atmosfere – che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre. Pina Bausch
Negli ultimi tempi ho frequentato luoghi diversi e mi sono accorta che mi mancavano le parole per dire alcune cose. Erano parole che non conoscevo e la sensazione che mi lasciavano era quella di essere imbrigliata. Oppure balbuziente. La seconda cosa che succedeva, però, era muovermi. Come se volessi spiegare a gesti quello che non riuscivo a dire a voce. In una specie di lingua da mimo, divertente e che, alla fine, portava alla soluzione dell’enigma: trovavano la parola giusta. Mi sono chiesta come può essere non avere parole per esprimere le sensazioni che si prova. Io faccio questo di lavoro e non mi capita quai mai di non trovare le parole per me. A volte le trovo anche per gli altri ma com’è quando ti mancano le parole?
Le parole congelate
Quando proviamo qualcosa di poco tollerabile la prima risposta avviene nel corpo: ci irrigidiamo o collassiamo (dipende dall’intensità di quello che proviamo). Questo blocca la naturale spinta espressiva. Così immagino che tutte le parole che non abbiamo detto stiano nei nostri muscoli, dure come acciaio oppure torpide come nuvole di cui non distingui mai i confini. Non è facile ridare vita a quelle parole: ci spaventano. Eppure sono lì che, come melograni maturi, aspettano di venire alla luce. Le parole sono state l’origine della distanza tra Wilhelm Reich e Alexander Lowen. Per Reich bastava riportare il corpo ad uno stato di vitalità perché la guarigione avvenisse spontaneamente. Per Lowen non si poteva prescindere dall’espressione consapevole, dal ritrovare le parole che erano rimaste congelate nel corpo. Così corpo e parola tornavano all’unità, senza la separazione che produce il trauma. Così mente e corpo tornavano insieme. Rimasero ognuno della propria idea, Lowen e Reich. Anch’io ho un’idea: la penso come Lowen. Senza parole il processo di guarigione non avviene e le parole che guariscono devono essere il più possibile vicine all’esperienza della persona. Parole generiche o significati inesatti vengono rifiutati: non vogliamo parole a caso: vogliamo parole precise
Le parole sono melagrane mature,
cadono a terra
e si aprono.
Tutto l’interno si volge all’esterno,
il frutto denuda il proprio segreto
e mostra il suo seme,
un segreto nuovo. Hilde Domin
L’incubo della coerenza
Non tolleriamo buchi, salti logici, passaggi mancanti. Cerchiamo di riempire le sospensioni e, se non possiamo riempirle, evitiamo le sospensioni, cambiando argomento. Questa coerenza ci offre continuità e congruenza ma non è solo un vantaggio. Molte volte questo bisogno di coerenza ci rende rigidi e inflessibili. Attaccati alla storia della nostra vita come se fosse un romanzo concluso e già pubblicato, senza la possibilità di ulteriori colpi di scena. In effetti attribuiamo significato a ciò che accade costruendo una narrazione. Nei colloqui diagnostici la capacità di fare un racconto coerente dei propri episodi di vita diventa un elemento distintivo di uno stile di attaccamento sicuro.
Ci sono dei momenti però in cui la coerenza è un ostacolo perché ci fa forzare tutti i significati in una direzione: generalizziamo la nostra vita a partire da un episodio e costruiamo così una ripetizione della stessa tragedia, commedia, storia. Come uscire da questa trappola? Non generalizzando. Un episodio è un episodio non disegna la storia della vita. Più ci permettiamo di tollerare le sospensioni più rimaniamo in grado di cogliere la novità e di seguirla.
Come nascono le parole
Le parole nascono dall’ascolto. Anche quando siamo piccoli è così. Nei primi due anni di vita – ossia prima che si strutturi il linguaggio – la qualità del nostro apprendimento e della nostra memoria è globale. Impariamo e ricordiamo attraverso la percezione. Anche le parole vengono apprese sulla base di caratteristiche percettive oltre che di significato. Ricordiamo e impariamo prima parole che hanno una ragione emotiva e sentiamo le parole nel corpo. Quello che impariamo nei primi due anni di vita non è ricordabile esplicitamente però è memorizzato nel modo con cui facciamo le cose. Nel modo con cui ci addormentiamo. Nei ritmi sonno-veglia. Nelle preferenza alimentari e nei gusti personali. Una grammatica dell’esperienza che definisce la rete degli altri apprendimenti. Poi, quando impariamo a parlare l’apprendimento diventa memorizzato e costruisce la nostra memoria autobiografica. Questi due stili di apprendimento e memorizzazione rimangono attivi tutta la vita. Abbiamo una mente sensoriale e una mente narrativa. La seconda parla ad alta voce, l’altra a bassa voce. Non per questo è meno importante. Non per questo non è significativa. È significativa e importante ed è la rete su cui costruiamo significati. Se la nostra mente sensoriale dice no, la nostra mente narrativa potrà darci un sacco di buone ragioni ma saranno ragioni fittizie, non convincenti. Per questa ragione è importante saper riconoscere i segnali – tutti percettivi – della mente sensoriale. Inoltre la mente sensoriale è quella che ci aiuta a trovare le parole giuste per descrivere la nostra esperienza. Le parole che risuonano. Quelle che parlano proprio di noi: le parole che fanno venire la pelle d’oca.
Raccontare la propria esperienza
Se non vogliamo che raccontare la propria esperienza sia una semplice storia senza spinta e direzione è necessario che mente sensoriale e mente narrativa siano in dialogo. Può avvenire attraverso la riflessione – che non è rimuginazione – può avvenire attraverso la terza posizione della meditazione. Una posizione in cui osserviamo l’esperienza e, allo stesso tempo, la percepiamo. Più gli strumenti della mente sensoriale sono affilati, più è chiara la definizione di noi e più è possibile lasciar andare. Nulla più della mancanza di chiarezza interferisce con il processo del lasciar andare. In fondo credo che tutti noi non vediamo l’ora di lasciar andare ma non riusciamo a lasciar andare fino a che non vediamo chiaro. Ecco perché scrivere la mente aiuta: aiuta a mettere a fuoco il dialogo tra mente sensoriale e mente narrativa. Aiuta a scoprire il mistero che sta dentro di noi e a non averne paura: perché fino a che c’è mistero c’è vita.
Come arrivano le poesie
Rigirale in bocca sottovoce
Poi lasciale vagare nella mente
Finché un significato prende forma.
Come l’amore, sono più forti se accolte alla cieca,
Giudicate all’istante, percepite con sensi acutizzati
Mentre ancora non è chiaro se siano necessarie.
L’emozione imprecisa – intensa
Quanto un’azione adrenalinica –
Si nutre di sé stessa, e a sua difesa
Si immagina un ruolo umanitario,
Ma le poesie, siano maschi o femmine, sono vanesie
E traggono le proprie soddisfazioni dall’interno,
Sfoggiano vocali, o esibiscono catene
Di elle ed emme d’argento per fare mostra
Di intimità o di biasimo, di gioia o di dolore.
Le vie delle parole sono strette ed egoiste,
Esige ognuna uno spazio adeguato al proprio peso.
Non serve scandire i versi ad ogni frase,
Ma una sorta di battito deve integrare
Il suono che la poesia fa quando è inventata.
Sennò, scrivi prosa. Oppure aspetta
Che arrivi e sia lei il proprio intento a dichiarare.Anne Stevenson
https://www.nicolettacinotti.net/eventi/parole-che-si-poggiano-sul-cuore/
Nicoletta Cinotti 2019 Photo by Raphael Schaller on Unsplash