
Nelle ultime due settimane la Newsletter è diventata quindicinale. Perché tutto è cambiato da quando è arrivato il Covid. Sono cambiati i miei orari, il tipo di impegno professionale e la cura nei miei confronti. È cambiata anche la modalità di cura nei confronti degli altri. Altri che vedo attraverso lo schermo del mio computer, figli inclusi. I miei genitori no. La loro badante sa fare video chiamate ma vederli così vecchi e soli è una tortura. Preferisco sentire la loro voce che è ancora quella di sempre. In questo periodo hanno sceso parecchi gradini ma continuano imperterriti a guardare avanti. E io guardo nella loro direzione con sempre maggior stupore.
La rabbia del Covid
Quando è iniziata la quarantena per qualche giorno sono rimasta spiazzata: accessi improvvisi di rabbia che mi saliva alla gola. Tutto spazzato via da un’ondata. Progetti, impegni, attività che avevo curato e coltivato per tanto tempo perché si realizzassero: ho capito che la prima lezione di questa storia era che dovevo cominciare a perdere. Ecco perché ero tanto arrabbiata. Perdere non mi piace per niente e, forse, non piace a nessuno. Così la prima batosta l’ho presa lì, nel rendermi conto che perdere non mi piace affatto e che fa subito svegliare dentro di me un’anima lottatrice. La seconda ragione per cui mi arrabbiavo tanto.
A dire il vero questa cosa non credo che sia successa solo a me: ho sentito tante persone “nervose”. Che cosa ho fatto con la rabbia della perdita? Ho accettato di perdere. Sono andata via dai numeri gonfiati delle visualizzazioni di Facebook e ho spostato la pratica quotidiana su Zoom, senza registrazioni. Perché a perdere si impara anche così, coltivando una serie di atti unici, il cui valore è dato dalla presenza. (A proposito, la pratica su zoom, ogni mattina alle 8, continua: se vuoi iscriverti clicca qui)
La paura del Covid
Il Covid però non mi ha fatto solo rabbia: ho avuto – ed ho – anche tanta paura. Paura per i miei genitori, paura per mio marito. Per me no, come succede a tanti curanti credo di avere il dono dell’invulnerabilità. Ovviamente scherzo quando lo dico però è vero che molte persone che fanno il mio lavoro – ossia curano per professione – hanno una percezione alterata del pericolo personale. Sono convinte che niente potrà succedergli: è l’effetto prolattina che rende le femmine dei mammiferi molto protettive e coraggiose. Protettive perché spaventate e, nello stesso tempo, coraggiose oltre il limite del lecito. Così ho scoperto che in me paura e coraggio sono inscindibili: più ho paura e più si risveglia una sorta di coraggio che non credevo di avere. Un coraggio che prende forma dalle situazioni della vita quotidiana: niente di audace e tutto molto ordinario ma, senza questo coraggio, credo che rimarrei ferma e immobile e, invece, mi muovo nel mondo, ben consapevole che paura e coraggio vanno insieme.
La tristezza del Covid
Ho avuto anche tanta, tantissima tristezza. Per le persone morte, per quelle che hanno perso il lavoro, per il nostro paese, per i bambini e i ragazzi che hanno visto la vita cambiare da un momento all’altro. Per la solitudine con la quale questa epidemia ci ha messo in contatto.
Forse oltre l’immagine del Papa che celebra da solo, di Mattarella che onora il 25 Aprile da solo, ho anche a cuore il concerto del Primo Maggio che si è tenuto lo stesso ma in una versione così diversa che mi ha dato – improvvisamente – il senso di cosa significa la solitudine. Siamo tutti più soli: non solo perché siamo stati in quarantena ma perché gli altri sono diventati, improvvisamente, una fonte di pericolo e non di piacere. Camminare per strada con le mascherine significa perdere qualsiasi riferimento che riguardi le emozioni. Non possiamo sapere che espressione del viso ha la persona che incontriamo, non possiamo sapere quanto la sua vicinanza può essere pericolosa per noi. Dovremo fidarci del cuore e se il cuore è pieno di paura dovremo ricordarci che non sempre la paura equivale al pericolo.
Non essere sovrastati dalle informazioni
Le informazioni sono state un problema: ho passato dei giorni attaccata al bollettino della protezione civile e la prima cosa che facevo al risveglio e l’ultima che facevo la sera era leggere tutto quello che potevo sulla stampa nazionale e internazionale, di argomento Covid. Poi, ad un certo punto si è creato un varco. Ho capito che potevo usare tutte queste informazioni anche in modo creativo. Che potevano essere una occasione per riprendere qualche lettura di biologia, qualche articolo di economia e finanza, qualche conferenza di virologi, qualche ricerca sui modelli di diffusione dell’epidemia, qualcosa di storia della scienza. E perché no, qualcosa di letteratura classica e qualcosa di letteratura contemporanea. Ho capito che le informazioni possono essere focalizzate dalla stampa o orientate dalla mia curiosità e dal mio desiderio di approfondire e che le informazioni orientate dal mio desiderio di approfondire sono molto meglio.
Ma la domanda essenziale rimane? Cosa opporre alla forza delle emozioni che viviamo? Cosa fare quando le emozioni ci urlano in faccia, battono sul cuore e ci spingono ad azioni impulsive? L’unica cosa da fare, secondo me, è avere chiara la nostra intenzione!
La chiarezza dell’intenzione
Che cos’è l’intenzione? La risposta più semplice è che l’intenzione è la direzione verso la quale tendiamo. Gli obiettivi sono passi predefiniti: se li manchiamo abbiamo fallito. L’intenzione è la consapevolezza della direzione verso la quale tendiamo e della necessità di rimanere in un fruttuoso dialogo con la realtà. Un dialogo che non sia impaziente ma vigile. Se non abbiamo chiara la direzione da prendere risponderemo alla vita semplicemente, rimandando indietro le palle che ci lancia e cercando di non perderne nessuna. Una partita faticosa perché la vita può lanciare molte palle contemporaneamente mentre noi abbiamo solo due braccia per rispondere.Le intenzioni sono desideri che orientano le nostre scelte ma contengono la consapevolezza dell’incertezza, delle sorprese e delle novità che possiamo incontrare nel tragitto per realizzarli.
Durante questo percorso potremmo anche renderci conto che le nostre intenzioni vanno decisamente ridimensionate o che sfumano in una direzione diversa rispetto al momento in cui abbiamo cominciato. Ma anche se l’intenzione varia, il punto centrale – da non dimenticare – è il legame stretto tra intenzione e significato. È la nostra intenzione che dà significato a quello che facciamo: è una promessa per la nostra vita.
Se lasciamo che tutto lo spazio di intenzionalità sia posseduto dal reagire a quello che succede, ci ritroveremo ben presto con la sensazione di una lotta continua. Non solo: avere chiaro qual è la nostra intenzione ci permette di identificarci meno con le situazioni che viviamo. In questo modo possiamo guardare a ciò che proviamo come guarderemmo le nuvole del cielo, che a volte sono chiare e leggere, altre volte pesanti e dense di pioggia, ma le nuvole non sono il cielo, proprio come noi non siamo le condizioni che ci troviamo a vivere. Al contrario, noi siamo il cielo, mentre le condizioni che ci troviamo a vivere sono le nuvole, e possono variare: leggere o pesanti, luminose oppure offuscate.
L’intenzione è lenta
Forse una delle ragioni per cui non amiamo l’intenzione è per la sua lentezza: ci vuole tempo per capire in quale direzione andare. Tempo per raggiungere quella direzione, tempo per crescere e per verificare se davvero vogliamo andare proprio lì. Invece vorremmo tutto e subito. E, in un certo senso è possibile avere subito qualcosa. Forse non tutto ma se vogliamo qualcosa di immediato e raggiungibile, in effetti possiamo averlo: magari non è proprio quello che vorremmo. Magari non è la cosa migliore per noi ma se ci interessa il risultato più della nostra vita una strada c’è sempre: fare impulsivamente quello che ci viene in mente. Qualche risultato lo darà sicuramente!
Forse l’unico nemico è il fatto che non ci piace il modo in cui la realtà è adesso e perciò vorremmo che se ne andasse via alla svelta. Ma quel che scopriamo facendo pratica è che niente se ne va finchè non ha finito di insegnarci quel che dobbiamo sapere! Pema Chödrön
© Nicoletta Cinotti 2020