
Avete presente quei bambini che – a dispetto della vostra fretta – vogliono esattamente quella maglia, quelle scarpe, quelle calze? Bene, quei bambini non sono equanimi ma stanno facendo una delle cose fondamentali per la crescita: stanno costruendo il loro senso di identità e lo fanno grazie alla loro lista di preferenze. Che a volte sono assurde e incomprensibili ma da rispettare perché, se non le rispettiamo, potremmo suscitare una tempesta di dimensioni notevoli. Ricordo ancora un paio di scarpe di pelle lucida che ho portato fino a che il sangue non mi ha dimostrato l’evidenza: avevo i piedi troppo lunghi per entrarci dentro. L’assurdo fu un pomeriggio in cui le avevo messe ma mi facevano davvero troppo male ai piedi e finii per chiedere di essere tenuta sospesa tra le mani di mamma e papà per poterle tenere senza camminare. Al ritorno andai scalza fino a casa: in questo i miei genitori erano già allora molto originali.
Eppure questi episodi banali raccolgono in pieno la sfida dell’equanimità: abbiamo bisogno di avere delle preferenze per formare un senso di identità e, nello stesso tempo, se il nostro senso di identità è sufficientemente solido, abbiamo anche bisogno di accettare che ci siano delle condizioni in cui le nostre preferenze non possono realizzarsi. Questa potrebbe essere una buona versione – psicologica – dell’equanimità: essere flessibili e stabili anche in situazioni non desiderabili.
Quando la forza diventa rigidità
Uno dei criteri per valutare la possibilità di una psicoterapia è quello di esplorare quanto il pensiero è coartato verso una direzione precisa: più il pensiero è coartato, più è difficile che la psicoterapia funzioni. In qualche modo potremmo dire che, in quei casi, la stabilità non è raggiunta grazie alla flessibilità ma grazie all’irrigidirsi su una posizione apparentemente incrollabile. Ecco, l’equanimità è l’opposto: è rimanere stabili accettando l’inevitabilità delle tempeste. Tra le quattro nobili dimore dei Brahma Vihara è quella che è più sfidante in termini di personalità perché ci chiede di riconoscere quali sono le nostre preferenze e di porsi in una posizione che è al di là delle nostre preferenze. In una parola l’equanimità ci chiede di uscire dalla nostra mente ed entrare nella nostra vita così com’è. E non è un gioco da ragazzi!
L’invito è a a guardare il proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso; l’invito è a cercare di comprendere che ci sono molte altre cose da fare nel momento presente, oltre a regolare i propri contenuti psicologici. Quando soffriamo entriamo in una empasse: pensiamo che riprenderemo a vivere quando avremo risolto la nostra causa di sofferenza. Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza e l’equanimità ci offre delle indicazioni pratiche per farlo. La vita comprende il dolore e non c’è modo di evitarlo. In quanto esseri umani dobbiamo tutti prendere atto che presto o tardi diventeremo deboli, ci ammaleremo e moriremo. Presto o tardi perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni, lutti. Presto o tardi tutti dovremo affrontare crisi, delusioni e insuccessi. Non è una nostra inadeguatezza: è parte della nostra esperienza di vita. Ho dovuto rassegnarmi ai miei piedi troppo lunghi per le mie amate scarpe e questo è stato il primo momento che ricordo in cui mi sono misurata con il fatto che, anche quello che ami di più, può diventare inadeguato. È stato il primo momento in cui le mie incrollabili preferenze si sono misurate con la realtà: buona lezione.
Una buona lezione resa ancora più buona dalla non interferenza dei miei genitori: mi hanno lasciato uscire con le scarpe piccole. Hanno lasciato che imparassi dai miei piedi. Mi hanno fatto tornare scalza: ho capito la lezione (anche se continuo ad amare scarpe un po’ assurde). Questo significa che, in un modo o nell’altro, tutti avremo pensieri e sentimenti dolorosi. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta. Perché esploriamo ed impariamo, senza sentirsi minacciati da quello che accade.
Non sentirci minacciati ovvero non interferire
L’amore è spesso la dimora dell’interferenza: perché amiamo ci sentiamo autorizzati ad intervenire, interferire, controllare. Dichiariamo la nostra ansia, anziché il nostro amore, senza accorgercene. E, senza accorgercene, con il nostro intervento decliniamo due forme di sfiducia: quella nel processo e in ciò che emerge e quella nei confronti della persona. L’equanimità ci offre qualcosa da fare prima di intervenire: aspettare. È una pratica che invita alla tolleranza, alla pazienza e all’accettazione. Ci invita ad esplorare cosa ci fa sentire minacciati e a lasciare all’altro la propria responsabilità. Ci offre il tempo per guardare, sentire, esplorare che cosa ci mette nella condizione di reagire e ci dà il tempo per scegliere di rispondere. Offre così un passaggio fondamentale della pratica di mindfulness, quello che Kabat Zinn chiama il paradosso della non-azione. Non agire non significa passività – chiunque pratichi sa bene quanta fatica può esserci in quell’apparente immobilità – significa permettere alle cose di seguire il loro corso. Una grande ballerina, Marta Graham, diceva della danza che la cosa più importante è quell’unico attimo in movimento da non lasciar passare inosservato e non utilizzato. Ecco questo è il paradosso della non azione: non dirigiamo secondo la nostra limitata volontà ma dimoriamo in quell’attimo e lasciamo che si realizzi non lasciando niente di abbandonato e non curato ma nemmeno nulla di forzato. Questo comporta il lasciarsi coinvolgere nella pienezza del momento presente, senza aggiungere nient’altro.
L’impazienza, il nemico dell’equanimità
Spesso il nostro intervenire è guidato da una sorta di impazienza. Abbiamo paura che le cose non vadano in una certa direzione o che impieghino troppo tempo. Ma la consapevolezza non ammette fretta. Con l’impazienza perdiamo, inevitabilmente, anche l’equanimità. E se andiamo almeno un po’ in profondità vedremo che sotto il terreno dell’impazienza sta una intolleranza per la realtà così com’è che conduce, con una curva rapida, a dare la colpa a noi o a qualcun altro, di quello che accade. Bisognerebbe, come dice Corrado Pensa con ironia, affrettarsi piano. Quando fu attribuito il Nobel per la pace al Dalai Lama, un giornalista gli chiese se provava rancore per i cinesi che li avevano esiliati e perseguitati. E il Dalai Lama rispose” Ci hanno preso tutto, dovrei permettere che mi prendano anche la mente?” Ecco l’equanimità è questo: non permettere che ciò che toglie pace alla tua vita invada la tua mente. È per questo che dico che l’equanimità bisogna cercarla ma che trovarla non è per niente facile! Ed essere impazienti – cioè pretendere di essere “subito a posto”- è un bel guaio
[box] la purezza del torbido si ottiene con la calma. La calma si ottiene generandola lentamente. Lao Tzu[/box]
Sono vegetariana dall’adolescenza e a tratti ho avuto periodi di salutismo estremo. Poi è nato mio figlio – divoratore entusiasta di tutto ciò che è commestibile – assaggiatore di professione della vita. Così, ad un certo punto, mi sono dovuta chiedere se la mia dieta a basso consumo di zuccheri, senza carne e pesce, fosse anche la sua dieta. Era evidente di no. Anche se sono tuttora convinta che questi cibi possano fare male, oltre che essere eticamente scorretti, e mi risulta tuttora difficile andare al ristorante con lui e guardarlo mangiare, cerco di trovare una posizione equanime. Tradotto – visto che non ho la grandezza del Dalai Lama e nemmeno la vastità della forza cinese degli invasori – ho moderato il mio salutismo e introdotto una maggiore varietà di cibi. Cucino cose che so che a lui piacciono e quando, ormai raramente, mangiamo insieme, non vedo l’ora che finisca ma gusto la sua compagnia. Non ho più la fretta di finire il pasto per farlo smettere di mangiare, non ho più la fretta di convincerlo che mangiare senza certi cibi sia la verità assoluta per una vita felice. Ho aggiunto tolleranza per la diversità che è un gradino fondamentale per l’equanimità: e ho imparato dalle sue ragioni.
Accettare e lasciar andare
Poco sopra parlavo della fatica dell’immobilità: apparentemente cosa c’è di più semplice della starsene fermi, senza fare niente? Chiunque mediti sa bene che questa affermazione non corrisponde al reale. Starsene fermi è di per sé un’azione e non seguire tutti gli impulsi dettati dall’irrequietezza fisica e mentale è un’altra azione ancora più difficile. Perché la meditazione inizia e finisce proprio qui: scegliendo di rimanere fermi e immobili; inizia disponendosi in una posizione equanime di fronte a ciò che proveremo e ci invita a continuare in questa equanimità. Possiamo farlo non solo perché coltiviamo la pazienza ma anche perché apriamo uno spazio all’accettazione e al lasciar andare. Corrado Pensa parla proprio di tre stadi nella pratica di equanimità: un primo stadio è aprirsi alla fiducia, un secondo stadio ad una osservazione gentile delle nostre avversioni, della nostra reattività. Una osservazione che ci conduca all’accettazione per arrivare poi alla pratica di upekka, la pratica dell’equanimità. Anche la meditazione della montagna è una pratica che aiuta a coltivare una mente equanime: ci rassicura sulla nostra forza e ci apre alla possibilità di essere identificati con qualcosa di più grande delle alterne vicende della nostra vita.
Qualche anno fa ho avuto una misteriosa emorragia intracranica: dovevano decidere se operarmi o aspettare e sperare che si riassorbisse. Dopo 10 giorni mi hanno spostato in un reparto di neurochirugia ma ancora c’era incertezza sull’intervento. Ho espresso la mia convinzione che fosse necessario intervenire, con decisione. Non so se mi hanno ascoltato o hanno valutato anche loro che l’intervento era necessario. Mentre mi portavano verso la sala operatoria, ho sentito la vecchia voce conosciuta, quella del dubbio. Avrò fatto bene? Non sarei dovuta rimanere nell’attesa? In quel momento, nel momento in cui avveniva qualcosa, in cui avevo dato una preferenza, per la quale c’erano anche ragioni mediche, l’equanimità non è stata aspettare: è stata entrare pienamente in quella scelta senza criticarmi. È stato lasciar correre le voci dubbiose e accettare le conseguenze di quella scelta, senza critica. Non saprò mai se ho fatto bene: la vita non consente sliding doors. E non possiamo valutare le nostre scelte a posteriori, quando sappiamo come è andata a finire ma equanimità è anche questo: non vacillare sotto il continuo movimento del dubbio. Rimanere equanimi è non farsi trascinare dal nemico vicino dell’equanimità – che è l’avversione – ma nemmeno dal nemico lontano che è l’indifferenza. Essere equanimi con affetto è la più grande sfida: è l’invito a smettere di aggrapparsi ad alcunché: un’idea, un oggetto, un punto di vista, un desiderio. È la decisione consapevole di abbandonarsi allo svolgersi del momento presente.
Tranquillità, comprensione e saggezza si possono ottenere solo nei momenti di completezza, in cui né si cerca né si afferra Né si respinge alcunché. È una situazione verificabile. Fate una prova per vostra soddisfazione; vedrete voi stessi che lasciar correre quando una parte di voi oppone resistenza produrrà una gratificazione più profonda. Jon Kabat Zinn
© Nicoletta Cinotti 2018
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