
Esercitarsi alla consapevolezza significa impegnarsi in ogni momento a essere presenti a sé stessi. Jon Kabat-Zinn
Incomincia così, nella mia giornata, il tira e molla tra il desiderio di essere presente, e quello di scappare. C’è sempre la tentazione di scappare – che tradotta significa “non sentire” – per andare in un luogo dove non ci siano problemi da risolvere, difficoltà da incontrare, somme da tirare. Apro gli occhi e mi dico, come Nina Cassian (qui trovi la sua poesia), Dio mio sono perduta. Poi scendo da letto e nelle giornate peggiori attivo il pilota automatico con la mia routine ben congegnata tutta fatta di cose che fanno bene. Dallo yogurt allo yoga. Ma anche le cose che fanno bene non fanno niente se non accetto di essere presente e sentire il rumore dello sterno che è il mio rilevatore del dolore.
Se un’emozione mi corrode la sento lì, in quella cartilagine che dovrebbe essere insensibile e, invece, la mia è sensibilissima. E allora mi piego, rinuncio all’illusione che, siccome faccio tante cose che fanno bene, non soffrirò più. Mi piego fino ad accettare di sentire il cuore, di riconoscere che è organo vitale e senziente e che nessuna pratica mi metterà automaticamente in Paradiso. Mi rendo conto che questa è solo l’ennesima illusione. Che niente e nessuno può impedire al dolore, all’imprevisto, alla fatalità di entrare e scompigliare le carte e aumentare la lista dei desideri abbandonati.
Poi quando mi lavo, mi vesto, mi trucco, so che mi aspetta la parte più difficile: dirlo anche a te. Dirti che non ci sono formule magiche ma che c’è solo la possibilità, umile, semplice, essenziale, di essere presenti a quello che c’è, così com’è. Di darsi manforte nella presenza perché se siamo in tanti ad essere presenti possiamo sperare di attivare un circolo virtuoso di saggezza e compassione. E fare questo vale sempre la pena, vale la pena attraversare i momenti in cui essere presente è difficile per immedesimarci nella nostra vita con piena lucidità. Non ne abbiamo un’altra da poter scegliere. E questa, vista dall’interno, non è niente male.
Si dice che ci sono quattro tipi di cavalli: eccellenti, buoni, mediocri e cattivi. Il migliore correrà piano o forte, a destra o a sinistra, secondo la volontà del cavaliere, ancor prima di vedere l’ombra della frusta; il secondo miglior cavallo farà tutto bene come il primo, ma un attimo prima che la frusta lo raggiunga; il terzo correrà quando avvertirà dolore sul corpo; il quarto correrà solo dopo che il dolore gli sarà penetrato fin nel midollo delle ossa.
Immaginate un po’ quanto è difficile per il quarto cavallo imparare a correre! Ascoltando questa storia, quasi tutti vorremmo essere il cavallo migliore. Se non è possibile essere il migliore, vogliamo essere il secondo dopo di lui. È questo, credo, il modo consueto di intendere questa storia e lo Zen.
Può darsi che pensiate che, sedendo in zazen, scoprirete se siete tra i migliori cavalli o tra i peggiori. Qui, tuttavia, ci troviamo di fronte a un fraintendimento dello Zen. Se pensate che scopo della pratica zen sia addestrarvi a diventare uno dei cavalli migliori, allora avrete veramente un grosso problema. Ma non è questo il retto intendimento. Se praticate lo Zen nel modo giusto non ha alcuna importanza che voi siate il cavallo migliore o peggiore. Se considerate la misericordia del Buddha, quale pensate sia l’atteggiamento del suo cuore nei confronti dei quattro tipi di cavalli? Egli avrà più simpatia per i peggiori che non per i migliori. Quando siete decisi a praticare lo zazen con la grande mente di Buddha, scoprirete che il cavallo peggiore è quello che vale di più. Proprio nelle vostre imperfezioni troverete la base per la vostra mente ferma, la mente che cerca la via. Suzuki Roshi
Pratica di mindfulness: Spazio di respiro di tre minuti
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