
In questi giorni ho festeggiato molti compleanni, Maggio sembra un mese particolarmente prolifico e così è stato inevitabile trovarsi a parlare del tempo che passa. Quei discorsi che partono un po’ in superficie, per coprire l’imbarazzo – un po’ come quando parli del tempo atmosferico – e che improvvisamente possono virare verso profondità insospettate. Così ho realizzato quella sensazione di tempo perduto, tempo passato, che diventa fortissima nei confronti delle persone che hanno avuto un trauma. Farei qualunque cosa per toglierli dall’immobilità in cui lascia il trauma. Farei qualunque cosa per sciogliere l’incantesimo della moglie di Lot, quella che, voltandosi a guardare indietro, alla distruzione di Sodoma e Gomorra, fu trasformata in una statua di sale. Ecco, quello è il nostro tempo perduto: quando siamo trasformati in una statua di sale dall’orrore, dalla visione del dolore che ci lascia immobilizzati. A volte una parte di noi riesce a staccarsi e a voltarsi avanti. Un’anima divisa in due: una parte immobile e l’altra che va avanti nella vita quotidiana, compiendo gesti che sono automatici e non essendo davvero presenti perché una parte della nostra energia è rimasta catturata nel passato.
La buona notizia è che possiamo riprendercela. Anzi che dobbiamo riprendercela e riportarla con noi, trattandola come si fa con un reduce che torna da una lunga prigionia: con pazienza, gentilezza, affetto. Nessuna cura può essere migliore di questa e la cura è già una pratica. Nell’ultimo discorso del buddha gli fu chiesto qual era la pratica più importante, quella centrale per la liberazione. I monaci si aspettavano che il Buddha rispondesse una delle pratiche di meditazione che già conoscevano. Invece, sorprendentemente, rispose, “Appamada”, la cura è l’impronta più grande, quella che, come l’impronta dell’elefante, contiene tutte le altre impronte, tutte le altre pratiche. Senza cura, senza reparenting, la pratica rimane formale ma non ci permette di riprendere le nostre parti esiliate, le nostre parti che si sono trasformate in una statua di sale.
Così ogni mattina, durante la mia pratica mi ripeto, “piango per ogni istante che non ho vissuto, rido per ogni istante che ho vissuto“. Perché il vero dolore non è il dolore di ciò che accade, ma il dolore di non vivere interi ma a metà: una parte a rimpiangere il passato e una parte a vivere automaticamente il presente.
Il bimbo che non gioca non è un bimbo, però l’uomo che non gioca ha perso per sempre il bimbo che viveva in lui e che gli mancherà molto.Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto
Pratica di mindfulness: Le parti esiliate
© Nicoletta Cinotti Reparenting ourselves