
Non è facile parlare di sessismo, circoscriverlo, definirlo, perché nelle società occidentali contemporanee è diventato sempre più impalpabile, sfuggente, difficile da dimostrare, liquido, per usare una felice (ma forse abusata) espressione di Bauman. Si percepisce, ma non si cattura; si sperimenta, ma spesso non si può denunciare. La marginalizzazione delle donne è certamente meno sfacciata e diffusa rispetto a solo quarant’anni fa, ma proprio per questo, forse, più pericolosa e sfuggente (Abbatecola, 2012).
Nella contemporaneità tutto si fa più complesso, e si assiste a un neo-patriarcato nel quale il sessismo non consiste più solo in processi auto-evidenti di stigmatizzazione e di esclusione delle donne dalla vita pubblica, ma anche in retoriche politically correct nelle quali la sovra-rappresentazione delle donne produce di fatto una “inclusione differenziante” (Simone, 2012) marcata da una:
“donnità” già prestabilità, già decisa, già costruita dagli ordini discorsivi e dalle procedure di organizazzione: o vittime o carnefici, mai soggettività (Simone, 2012, p.12).
Così, mentre nel patriarcato tradizionale le donne erano semplicemente estromesse dai discorsi relativi alla sfera pubblica, ora sono continuamente presenti, ma prevalentemente come soggetto altro dai tratti spesso essenzialisti, naturalizzanti e omogeneizzanti; si pensi, ad esempio, all’espressione al femminile: letteratura al femminile, film al femminile, etc.
Tuttavia, accanto a queste nuove retoriche, spesso in buona fede, i cui esiti sessisti non sono sempre voluti e consapevoli, troviamo ancora vecchie pratiche di esclusione che potremmo interpretare come forma reazionaria di resistenza alle nuove libertà femminili del post-patriarcato, un sessismo quotidiano e ordinario che:
[…] ci fa entrare in uno strano universo, fatto di un gesto che respinge, di una parola che esclude, di un sorriso che schernisce, di una schiena che si volta, di un cerchio che non si apre, del grigio che rifiuta il rosa. […] Il sessismo ordinario è costituito da stereotipi e rappresentazioni collettive. Che si traducono in parole, gesti, comportamenti o atti che escludono, marginalizzano o definiscono le donne come esseri inferiori (Gresy, 2010, pp. 8 e 9).
Sessismo, dunque, che passa attraverso stereotipi, rappresentazioni, gesti, sguardi, sorrisi e parole. Parole. Parole non dette, parole inferiorizzanti, parole solo apparentemente gentili, parole che offendono. Parolacce.
Attraverso citazioni o silenzi, contribuiamo a costruire la realtà sociale e a produrre e riprodurre gerarchie e rapporti di dominazione, benché la nostra complicità, come notava Austin (1987), non sia sempre consapevole.
Il sessismo e l’inferiorizzazione del femminile trovano così consistenza e corpo nel maschile non marcato che pretende di parlare anche per il femminile, nel mancato riconoscimento dei titoli e delle professionalità delle donne, nella polarizzazione semantica per cui una stessa parola si trasfigura nel passaggio dal maschile al femminile (il governante e la governante), nelle espressioni di confidenza fuori contesto (cara, tesoro, bella, principessa), nelle false galanterie paternaliste, nei commenti al limite della molestia, nelle sinedocche (la bionda, la mora, bella gnocca) e in molto altro.
Parole non dette, parole dette, parole urlate. Un aspetto forse meno frequentato nel dibattito è il potere performativo delle parolacce. Come ci insegna Butler (2010) a proposito dell’hate speech, gli insulti creano performativamente la subordinazione sociale che nominano. Seguendo il suo discorso e analizzando gli insulti più frequentemente usati ci rendiamo facilmente conto di come la dominazione maschile sulle donne sia quotidianamente ribadita attraverso l’insulto slut, anche quando l’insulto non sia specificatamente riferito a una donna in particolare (puttana Eva, porca troia) e finanche quando il destinatario dell’offesa sia un uomo (bastardo, cornuto, figlio di puttana). Ecco che le strategie di dominazione ci appaiono finalmente in tutta la loro evidenza. La cittadinanza femminile si gioca ancora sul filo della reputazione sessuale, e l’insulto slut, così come il discorso osceno, rimane un potente dispositivo di controllo sulle, e di auto-disciplinamento delle, donne.
Il linguaggio, tuttavia, detiene sempre anche un potenziale sovversivo (Butler 2010), poiché nella citazione e nella ripetizione posso provare a risignificare un termine riappropriandomene consapevolmente, o, più semplicemente, posso scegliere quali parole usare, quali rifiutare, quali proporre creativamente, contribuendo così alla decostruzione e alla ridefinizione di un ordine simbolico forse più vulnerabile di quanto non voglia apparire.
Tratto dal testo di Emanuela Abbatecola (2016), Sessismo a parole, in Corbiero F., Maturi P., Ruspini E. (a cura di), Genere e Linguaggio. I segni dell’uguaglianza e della diversità, Milano, Franco Angeli, pp. 138-158
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