
Forse pensiamo che la nostra sensazione di sicurezza possa avere radici profonde e che sia sostenuta dalla realtà: dalla sicurezza lavorativa, dalla sicurezza economica o affettiva. Non è così. Quelle sono sicurezze che ci confortano a posteriori. Ma la nostra sensazione di sicurezza o di insicurezza è intima, profonda. “Di pancia” come direbbe qualcuno.
Così come è di pancia la nostra sensazione di pericolo e insicurezza. Non è retta da leggi logiche ma da leggi percettive. Come animali fiutiamo il pericolo – interno ed esterno – senza grande razionalità e attiviamo una risposta. In genere non siamo consapevoli di queste sensazioni di sottofondo che rimangono come un rumore bianco dentro di noi. E ci mettiamo a curare l’aspetto esterno della sicurezza: controlliamo che sia tutto a posto, organizziamo la nostra vita. Però se questo profondo campanello d’allarme non si calma non possiamo riuscire ad essere sereni. E ci ritroviamo a domandarci come mai, anche se tutto va bene, non siamo felici.
Perchè abbiamo sistemato tutto quello che sta fuori, tutto quello che è sotto il nostro controllo ma non abbiamo fatto nulla per questo interruttore interno di pericolo che ci fa sentire sempre un po’ insicuri.
Non bastano le rassicurazioni esterne. Non basta il dato di realtà. A quella parte interiore e spaventata dobbiamo parlare come parleremmo ad un bambino: lo calmeremmo abbracciandolo, dandogli attenzione e affetto. Cercheremmo di familiarizzare con ciò che lo spaventa, anziché scappare alla ricerca di rassicurazioni esterne. Questo è il modo con cui disporsi alla pratica. Con l’intenzione di incontrare la parte profonda e nascosta di noi e accoglierla con affetto e attenzione. Senza giudizio, senza rimprovero. Anche se non è razionale. Soprattutto se quello che prova non è razionale. E stare lì a rivolgere a noi stessi quell’attenzione affettuosa che cerchiamo da una vita. E che non possiamo pretendere che arrivi dagli altri se non sappiamo darla per prima noi.
Nessuno ci dice mai di smettere di fuggire dalla paura. Di rado ci dicono di avvicinarci, di essere lì, semplicemente, di familiarizzare con la paura. Chiesi una volta al maestro zen Kobun Chino Roshi come si comportasse con la paura, e lui rispose : “La accetto, la accetto”. Invece il consiglio che di solito ci viene dato è quello di minimizzarla, prendere una pillola o pensare ad altro, insomma di farla andare via, in qualunque modo. Non abbiamo bisogno di un consiglio del genere, perché prendere le distanze dalla paura è quel che facciamo naturalmente. E non funziona. Pema Chodron
Pratica di mindfulness: Addolcire, confortarsi aprire
© Nicoletta Cinotti 2018 Il protocollo MBSR: addolcire, confortare, aprire anziché combattere e fuggire