
Qualche giorno fa sono tornata da un ritiro di Mindful Self compassion. Avevo voglia di avere qualche giorno off-line da dedicare alla pratica di meditazione e a me stessa. Al mio rientro avevo una pila impressionante di mail, messaggi e contatti a cui rispondere. Alcuni tolleravano l’attesa, altri assolutamente intolleranti rispetto alla risposta ritardata. Mi sono domandata come facessero a sopravvivere quando l’unico mezzo di comunicazione era il telefono a gettoni e le Poste italiane. Ironia a parte ho esplorato la mia reazione a questa urgenza alla scrittura e mi sono detta che questo trasformava la scrittura in compito e rendeva la mia comunicazione asciutta, efficiente e sintetica ma priva di connotati emotivi. È quello che succede quando lo scrittura diventa veloce e quando il contenuto sembra essere più importante della relazione. Invece, per scrivere davvero, abbiamo bisogno di rallentare e di cercare, prima di tutto, la risposta dentro di noi. Una risposta che si palesa lentamente in tutta la sua ricchezza. La velocità ripetuta, prolungata, insensata, uccide la scrittura e la rende un insieme morto di parole.
Parole che fanno male, a giudicare dai malintesi che nascono sui whatsapp. Anzi direi che i whatsapp sono mezzi di distruzione di massa. Perché ci sottoponiamo alla tortura prolungata della velocità, senza marce intermedie? Perché riduciamo il tempo, inevitabilmente lento, del sentire, per renderlo telegraficamente efficiente? Credo che l’illusione sia che, se finiremo tutto in fretta, dopo potremo giocare. Ma la lista dei nostri compiti da adulti è ben più lunga della lista che avevamo da bambini. È praticamente infinita.
Ecco perché – ogni giorno – mi fermo a meditare. Ecco perché ogni giorno mi fermo a scrivere. Per fermare la lista dei doveri, dei compiti. Per prendere del tempo – il tempo della mia vita – per me. Non è un atto egoistico e nemmeno un lusso. Farlo mi rende più umana di quando sono presa dal vortice dell’efficienza.
Il vortice dell’efficienza
Il vortice dell’efficienza colpisce tutti: ha un vantaggio. Ci fa sentire bravi, capaci, forti. Ha un padrone che è il nostro Io. È lui che comanda e dirige le grandi manovre. Durante il ritiro, improvvisamente, ho colto quanto di me rimaneva soffocato sotto la mia efficienza e quanto aspettava di venire alla luce. Il terreno era gelato, coperto di brina e ghiaccio. Sotto l’erba aspettava la primavera per fiorire. Anche la parte di me soffocata aspetta la primavera per fiorire. Ma la primavera non può essere il momento in cui si va in pensione o si va in vacanza. Ogni giorno ho bisogno di primavera. Allora basterebbe meditare? No, per me meditare non basta perché questa parte, una volta alla luce, ha bisogno di esprimersi. Forse è per questo che nella self-compassion ci sono tantissimi esercizi di scrittura. Non basta dare aria e luce alle nostri parti nascoste: richiedono la libertà espressiva.
Aver trasformato la scrittura in un compito scolastico le toglie libertà espressiva e toglie a noi la possibilità di far sentire la nostra vera voce.
Se non siete disciplinati nel parlare cresce anche la distanza tra il vostro cuore e le vostre parole. Dunque, prendete le parole sagge ed esaminatele con attenzione. Gurumayi Chidvilasnanada
La nostra vera voce
Si dice spesso che la scrittura, perché sia davvero comunicativa, deve lasciar uscire la nostra vera voce. Io direi che ci sono due scritture. La scrittura dell’Io e la scrittura dell’es. L’io è la nostra mente razionale. L’es è la nostra mente – cuore. Quella che sa dare voce alle nostre istanze più profonde. È la parte che finisce nella comunicazione non verbale, che si insinua nei nostri gesti inconsapevoli. Che ci mette in relazione intima con noi. A volte cerchiamo di tenere zitta la voce dell’es perché ha la memoria sensoriale dei dolori passati e noi invece preferiamo il ricordo fotografico, quello privo di percezione. Preferiamo i fermi immagini mentre la memoria dell’es è il passato che ritorna presente.
Il fatto è che non possiamo mettere il silenziatore alla nostra anima e quando ci sediamo per meditare lei fa capolino. Timida ma determinata. È la nostra vera voce che ci parla e che chiede una forma espressiva. Scrivere a quel punto diventa ascoltare.
Scrivere è amare
Mi sono domandata tante volte perché, malgrado tutta la nostra tecnologia, non rinunciamo a scrivere una lettera alle persone che amiamo. Non rinunciamo a scrivere un messaggio affettuoso a chi sappiamo in difficoltà. Lo facciamo perché sappiamo che quelle parole, scritte e non solo pronunciate, si posano e lasciano un’impronta. Nello Shemà, la preghiera ebraica del mattino e della sera, si dice che le parole vengono poggiate sul cuore. Non vengono messe dentro. No. Poggiandole si permette che prendano l’impronta della persona che le legge. Quando scriviamo accade la stessa cosa. Le parole dette volano via veloci e cambiano ad ogni stagione. Le parole scritte si poggiano sul cuore e piano piano penetrano dentro. Ecco perché Verba volant scripta manent. Perché ciò che leggiamo – e, se è importante, rileggiamo – penetra profondamente nel nostro cuore. Quante volte rileggiamo un messaggio importante? Potremmo pensare che lo rileggiamo per capirlo. Non solo. Cerchiamo di capirlo con la mente cuore. Quel messaggio scritto ci convince ad entrare in quel processo di ascolto che avviene quando le parole hanno il tempo per appoggiarsi sul cuore.
Ecco perché nella self compassion facciamo tanti esercizi di scrittura. Perché le parole autentiche nascono dal nostro cuore e una volta scritte, lasciano un’impronta nel luogo più profondo che abbiamo. Un segno che penetra lentamente. Ecco perché, a volte, scriviamo cose che non sapevamo di conoscere: perché permettiamo che parli la nostra mente cuore.
Le parole sono molto potenti, coinvolgono la mente. Se non sapete come scegliere le parole da far entrare siete in balia di ciò che vi circonda. Prima o poi questo riempirvi la mente con parole indiscriminate vi costerà un terribile pedaggio. Gurumayi Chidvilasananda
Scrivere è ascoltare
Se avete guardato qualcuno scrivere vi sarete accorti che si ferma. Pensa. Forse. O forse ascolta. Perché la nostra voce interiore a volte esce forte e chiara. A volte è flebile e bisogna far fare alla nostra attenzione una curva a U. Dobbiamo riportare l’attenzione all’interno, proprio come quando meditiamo. Se non esercitiamo questa arte dell’ascolto e ci lasciamo travolgere invece dalle ondate di parole che ci arrivano dall’esterno prima o poi avremo la sensazione di esserci arenati. Perché ascoltare, ascoltare lentamente ci aiuta a capire anche a che cosa dare priorità. Ecco perché molte tradizioni religiose dicono che Dio è il più grande ascoltatore dell’universo. Non si ascolta solo con l’orecchio esterno. Anzi, potremmo dire che ascoltare è un processo che ha luogo prima di tutto all’interno.
Non lasciarti ingannare. Non lasciarti affascinare dalle parole e dalle adulazioni. Scava all’interno per trovare l’oro. Ascoltare è un processo potente, quindi ascoltate la verità. Kabir
La prima frattura della comunicazione
La prima frattura nella comunicazione non è con il mondo esterno. È con il nostro Sé. Scegliamo di non sentirlo per fedeltà ad una persona esterna o per smettere di sentire quello che c’è. Non è una frattura insanabile. È una frattura però che, se lasciata non curata, produce altre fratture comunicative nelle nostre relazioni. Se non possiamo comunicare con una parte di noi non possiamo comunicare nemmeno con quelle persone che attivano – per somiglianza o per opposizione – quella parte non ascoltata di noi. E così la nostra vita diventa un percorso ad ostacoli fra comunicazioni interrotte. Mi è capitato tante volte di sentir dire “per me quella persona è morta”. Che lutto indicibile! Seppellisce la nostra immagine dell’altro ( ma non l’altro reale) e seppellisce senza remissione quella parte di noi con la quale l’altro era in dialogo.
Abbiamo bisogno di una disciplina che tolga quelle parole dal silenzio. In un cerchio che si allarga. Togliendo dal silenzio le parole che ci riguardano, togliamo dal silenzio anche le parole che riguardano gli altri. Ma soprattutto facciamo un’azione basilare: ascoltare è diventare intimi ed è la sensazione dell’intimità che apre all’amore. Verso noi stessi e verso gli altri.
La mente cosmica era definita né esistente né inesistente. Una volta creata, questa mente desiderò divenire manifesta…la mente cosmica allora creò la parola. Shatapatha Brahmana (X, 5, 3, 2-4)
La distanza dal cuore
Alla fine con la scrittura e la meditazione cerchiamo tutti la stessa cosa: una strada che ci riporti in dialogo con il cuore e con le nostre più nobili qualità. Quando cresciamo abbiamo infiniti ostacoli ed infinite interruzioni che ci fanno nascondere le nostre migliori qualità, convinti così di proteggerci dalle ferite. In realtà creiamo una callosità, una specie di cicatrice ispessita che ci toglie più di quello che ci dà. Quella parte soffocata di me che ogni tanto mi richiama all’ordine, spesso attraverso sintomi fisici, non chiede molto. Chiede che, invece della cicatrice ispessita, ci sia intimità e conforto. Non c’è intimità senza conforto. Non c’è conforto senza intimità. Allora, mi sono detta, è per questo che scrivere la mente è un viaggio nel territorio dell’amore: perchè offre compassione a parti di noi che sono state ferite. Mi ricorda che prima della difesa viene il conforto perché la difesa non basta per la guarigione. Il conforto, la compassione, invece, aggiungono ciò di cui abbiamo bisogno. Ci ascoltano e solo dopo aver ascoltato ci rispondono. A volte senza soluzioni, perché non sempre ci sono soluzioni ma sempre c’è la possibilità dire ti ascolto. Sono qui con te. Sono qui con me. Quale modo migliore per coltivare la primavera in noi e nelle nostre relazioni?
E ora l’altra vita. Quella senza sbagli. Lou Lipstiz
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© Nicoletta Cinotti 2020