
C’è un senso di fedeltà che ci lega ai nostri sogni. Per quanto possiamo considerarli difficili da mettere in pratica non vogliamo lasciarli andare e la sensazione di non averli realizzati è penosa e si nasconde dietro molta della nostra insoddisfazione.
Non succede solo per i nostri sogni. Succede anche per i sogni degli altri. Il desiderio di realizzare i sogni dei nostri genitori non svanisce tanto facilmente perché ha avuto tempo di sedimentare dentro di noi nel periodo di vita in cui eravamo più teneri: la nostra infanzia.
Così ieri, ascoltando una paziente, mi sono sorpresa a ricordare come dietro al mio desiderio di avere un figlio ci fosse il desiderio di dare a mio padre il figlio maschio che non ero stata. Desiderando un figlio non desideravo solo realizzare un mio sogno. Desideravo anche di dare compimento al suo, di pareggiare la frustrazione che aveva provato quando ero nata femmina. Una frustrazione che è rimasta negli anni e che mi ha spinto a mettermi alla prova, a lavorare come un uomo, a diventare l’uomo che avrebbe voluto. È servito a qualcosa? È servito a darmi determinazione ma non ha mai cancellato l’essere nata al posto e nel momento sbagliato perchè le aspettative hanno la forza dei macigni. Possono sgretolarsi in un attimo ma non svaniscono. Sono solo sostituite dalla delusione, altro macigno invisibile che si staglia tra noi e la percezione della realtà.
Così ieri, mentre ascoltavo il desiderio di un’altra donna di dare al padre il maschio che era mancato, non ho potuto fare a meno, dentro di me, di abbracciare con tenerezza il grande affetto che ci lega ai nostri genitori. Un affetto che, anche se condito da ribellione, conflitto o distanza fisica ed emotiva, ci fa misurare la nostra realizzazione in base alla distanza che c’è tra chi siamo e chi loro avrebbero voluto che fossimo. Un rilevatore di discrepanza che diventa intergenerazionale. Non solo misuriamo la distanza tra chi siamo e chi vorremmo essere ma ci misuriamo anche con il ruolo che avremmo dovuto avere nella saga familiare. Poi, per fortuna, intravedo uno spiraglio. Ieri è stato una variazione di luce nella stanza, il suono degli operai che lavorano sui ponteggi del 110%, le risate che si fanno in mezzo alla fatica. Perché, alla fine, niente è più bello della realtà, nuda e cruda, niente è più bello del tornare ai sensi e lasciar svanire quello che separa dal presente.
È difficile notare (ma anche non notare) che la consapevolezza, quando vi si dimora, non ha né centro né periferia, dunque somiglia allo spazio stesso e alla struttura senza confini dell’universo per come la conosciamo. Jon Kabat Zinn, Riprendere i sensi
Pratica di mindfulness: La consapevolezza del corpo
© Nicoletta Cinotti 2022 Il protocollo MBSR online
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