
[box]Quando i leader sono sopraffatti dalla stanchezza ed esauriti, iniziano a consumare l’energia delle persone che sono accanto a loro. Andrew Swinand[/box]
Riconoscere il burn out
Nel tempo ho imparato a riconoscere il mio burn out perché ognuno di noi ha modi personali per entrare in burn out. Il mio è sentire la testa confusa e iniziare le cose senza portarle a termine. Perdo efficienza e divento un po’ inconcludente. A volte me ne accorgo subito, a volte ci metto parecchio tempo per registrare questo segnale. Perché? Perchè veniamo educati da un caregiver (letteralmente qualcuno che si prende cura di noi) e impariamo molto lentamente a prenderci cura di noi emotivamente. Direi che la capacità di prendersi cura di noi emotivamente è quasi completamente lasciata alla libera iniziativa e all’esempio. Impariamo dai nostri genitori come trattare le emozioni difficili e se sono stati capaci di affrontarle bene. Altrimenti ereditiamo le loro difficoltà!
L’impegno di curarci
Per ristabilire l’equilibrio perduto nello stress abbiamo bisogno di movimento, consapevolezza dei limiti e meditazione. Già questo breve elenco potrebbe sembrarci piuttosto noioso e qui entriamo nel primo equivoco del prendersi cura di noi: lo troviamo un dovere anzichè un piacere. Riteniamo divertente giocare a tennis ma tutto il divertimento svanisce se pensiamo che lo dobbiamo fare per prenderci cura di noi. Come mai?
Nello stile educativo in cui siamo cresciuti l’altruismo viene come diretta conseguenza di un’educazione in cui sono stati i nostri genitori ad occuparci di noi. Pensare che prenderci cura di noi significhi mettere avanti le proprie necessità sembra un atto paradossale, illogico ed egoistico. Eppure è proprio così: non possiamo dare nulla se siamo scarichi come una pila esausta. E non possiamo sperare che qualcuno si accorga che siamo esauriti e che ci venga in soccorso come sogno d’amore. Non funziona più da quando siamo usciti di casa e, in alcuni casi, avrebbe potuto funzionare poco anche in casa
Ma cos’è che trasforma la cura di sé in un dovere? È la stessa differenza che c’è tra prendersi un bicchiere d’acqua o avere qualcuno che ti porta un bicchiere d’acqua. Se ci limitiamo al gesto preferiamo che ci venga portato ma se in quel gesto che facciamo per noi c’è affetto e cura, se lo facciamo perché sappiamo rispondere ad un nostro bisogno, non diventa più gratificante?
Radical self-care
Radical self-care (potremmo tradurlo con “cura di sè radicale) non significa entrare in una spirale egoistica ed auto-centrata. Se siamo esauriti non diamo aiuto a nessuno. È piuttosto un atteggiamento altruista che ci permette di essere pronti e freschi, capaci di dare la nostra piena attenzione agli altri perchè abbiamo pieno accesso alle nostre risorse.
Anche in natura osserviamo ogni giorno atti di radical self-care: perdere le foglie per i sempreverdi, radicarsi più in profondità per ogni albero, lasciare che alcuni rami si secchino e abbandonare i fiori quando non ricevono abbastanza acqua: non è altro che una radical self-care.
Quali sono gli elementi?:
- prendersi una pausa
- praticare gratitudine per non entrare nel delirio “faccio tutto da sola/o”
- anziché rifugiarsi nella distrazione (qualsiasi cosa significhi per te) osservare attentamente quello che ti circonda
- riprendere i sensi: odori, suoni, sapori, tatto
Le ricerche di Richard Davidson
Richard Davidson è un neuro-scienziato che ha collaborato anche con Jon Kabat-Zinn nelle ricerche sull’efficacia del protocollo MBSR e la sua fama nell’area della regolazione delle emozioni e della mindfulness è ormai internazionalmente riconosciuta.
Le sue ricerche sulla corteccia pre-frontale hanno dimostrato che l’uso estensivo della tecnologia aumenta la frequenza e l’intensità delle reazioni allo stress. Mediamente tocchiamo i nostri cellulare 2617 volte al giorno. Il nostro corpo però è fisiologicamente conformato per rispondere ad un numero minore di stimoli e come risultato ci ritroviamo a confrontarci con un livello di attivazione molto più alto. La sovra-stimolazione crea un rinforzo alla memoria di eventi negativi. Insomma siamo noi stessi a crearci stress, senza volerlo, solo per il nostro bisogno di controllo e per la nostra paura di perdere qualcosa.
Le ricerche di Richard Davidson suggeriscono che 20 minuti di meditazione tre volte alla settimana sono una “dose”sufficiente per maneggiare lo stress da sovrastimolazione e possono essere accompagnati da piccoli snack di riposo:
- tre respiri consapevoli tra un’attività e un’altra
- qualche movimento di stretching
- una brevissima meditazione camminata
Avere obiettivi di dimensioni ridotte
Spesso pretendiamo che la nostra meditazione sia perfetta – mente sgombra e stato di pace – oppure che sia lunga – 45 minuti, un’ora almeno. Questa idea è il modo migliore per non meditare affatto. Perché non inserire una pausa tra un’attività e l’altra magari di tre respiri?
Oppure perché non diminuire e tagliare qualche “ramo secco” alla nostra attività? È proprio necessario fare tutto quello che abbiamo in mente di fare?
La stessa cosa vale anche per il movimento. Sono stata torturata per un po’ di tempo dall’idea dei fatidici 10000 passi al giorno. Al massimo riuscivo a farli il sabato e la domenica. Adesso ho capito che è meglio se cerco di camminare ogni volta che posso, come posso: lenta, veloce, allegra, triste…non devo diventare la migliore maratoneta sessantenne del mondo! Cinque minuti di attività fisica sono sempre qualcosa in più di non fare attività fisica.
La capacità di distaccarsi dai risultati
Per tanto tempo ho provato un’enorme quantità di vergogna per i miei risultati sotto standard. Era un dolore quasi fisico che mi rendeva impacciata, goffa e mi spingeva ad impegnarmi di più.
Ho sempre in mente come vorrei essere e non so davvero se riuscirò a fare quello che ho in mente ma ho imparato a fare i conti con l’intenzione. Cerco di avere un’intenzione chiara e di misurare quello che accade non sulla base del risultato ma anche su come quel risultato può arricchire la mia intenzione e renderla più chiara. È una forma di sospensione del giudizio che mi aiuta ad affrontare il mio giudice interiore e tutta la corte di parti di me che si aspettano il meglio. Ho capito che sbaglio da professionista e che vorrei essere una professionista senza sbagli ma non ci riesco.
Per ora faccio un atto di gentilezza con la mia mente distratta. Ogni volta che vaga la riporto a casa senza rimprovero ma più gentilmente possibile. Chi vorrebbe vivere in una casa dove ti maltrattano?
Mettere i confini con gentilezza
Una radical self-care a volte richiede anche qualcosa di più relazionale che meditare, fare movimento o tornare ai sensi. Molto spesso richiede anche di pronunciare una piccola parola, apparentemente semplice ma in realtà complessa che è dire no. Possiamo addolcirla con un “No, grazie” ma dire no significa che corriamo il rischio di entrare nel territorio della disapprovazione. Un rischio che vale sempre la pena correre se siamo senza risorse o con il serbatoio in riserva: le ultime energie non vanno sprecate. Metaforicamente non sappiamo quando avremo modo di ricaricarci e quindi è importante saper dire no. Un’attività banale ma che diventa difficile quanto più siamo stressati. Quando siamo stressati infatti le nostre emozioni affiliative diminuiscono e dire di sì, in quelle situazioni, è, in realtà, un modo per “sbarazzarci” della persona oltre che del problema, e si basa sul fatto che ci siamo “sbarazzati” anche di noi, perdendo rispetto e cura della nostra stanchezza.
Allora potremmo domandarci quante risorse abbiamo e quante risorse quella persona ci chiede e rispondere a partire proprio da lì…”ti aiuterei volentieri ma in questo momento sono troppo occupata/occupato…oppure stanco/stanca”o, se siamo davvero coraggiosi potremmo anche dirgli la verità: non posso perchè non ne ho le forze.
La verità non ci fa cadere nel territorio della disapprovazione ma nel territorio della condivisione. E se il nostro interlocutore non sa entrare in quel territorio è una ragione di più per dire di no!
© Nicoletta Cinotti 2022
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