
Non so esattamente perché alcuni aspetti della nostra vita ci appaiono immobili. Fermi senza possibilità. Un presente che viene da lontano e che si estende nel futuro. Lo diciamo sempre per le cose peggiori nei momenti più difficili. In quel momento il cuore finisce schiacciato dalla previsione, la mente prende il sopravvento e ci racconta – con molti particolari e passaggi che sembrano logici – perché niente cambierà. Poi, con quel cappottino di piombo addosso, ce ne andiamo in giro per il mondo, cercando un attaccapanni ma non credendo fino in fondo che sia possibile trovarlo.
Ci facciamo ingannare dalla nostra mente prestigiatore. Quella che sa raccontarci qualunque bugia facendola sembrare vera. Non sono gli altri che ci ingannano. Siamo noi, tutte le volte che prendiamo un frammento di passato e lo trasformiamo in profezia. Lo facciamo preferibilmente al mattino, quando è faticoso alzarsi dal letto e rimanere rincantucciati sotto i nostri pensieri ci sembra meglio che mettere i piedi per terra.
Che inganno, che follia! Che disastro credere a tutto quello che ci passa per la testa, quando, davanti a noi si apre ogni giorno uno scenario diverso. Il mare, anche quando è calmo, non è mai immobile. La mareggiata ha tirato su oggetti consumati. Li lascia sulla spiaggia, non se ne preoccupa: sono i suoi regali, quegli ingombri, che è grato di aver fatto venire in superficie. Non fa come noi, non crede che ci siano solo oggetti arrugginiti, è grato che la tempesta lo abbia liberato. Non grida allo scandalo, non prevede future mareggiate. Permette che le onde siano – piccole o grandi – senza particolare affanno.
L’unica cosa che ferma la nostra vita è la convinzione che sia ferma. Che non ci siano possibilità. Che quello che la nostra tempesta interiore porta su sia il nostro destino e non qualcosa che possiamo lasciar andare. Allora, in quel momento, dobbiamo rivolgerci alla cura dello sguardo. Mettersi ad una finestra e guardare come se non avessimo mai guardato. Guardare non solo le forme conosciute, quelle a cui sappiamo dare un nome – le case, gli alberi, le strade – ma lo spazio vuoto tra una forma e l’altra. Allora potremmo accorgerci quanto è grande lo spazio delle possibilità. Quanto è profondo il respiro del mare, quanto è intimo il nostro respiro.
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. Eugenio Montale
Pratica del giorno: La classe del mattino
© Nicoletta Cinotti 2021 Il protocollo MBCT