
Qualche giorno fa ho avuto un imprevisto lavorativo legato ad un progetto a cui collaboro. Credevo che i miei interlocutori fossero molto più avanti nella realizzazione della loro parte di lavoro e, invece, mi sono accorta che erano in difficoltà e bloccati. Ho deciso di aiutarli anche se non era di mia diretta competenza ma non è questa la parte interessante della storia. La parte interessante è stata la mia risposta emotiva alla decisione di aiutarli. Ero molto arrabbiata. Da una parte mi ero immediatamente messa all’opera per intervenire ma, dall’altra parte, l’idea di dovermi far carico di un lavoro imprevisto e aggiuntivo non mi lasciava per niente tranquilla. Avrei voluto tutt’altro e questo era chiaro ma non capivo perché, avendo deciso di collaborare, rimanevo arrabbiata.
Le emozioni represse
Siamo ambivalenti rispetto alle nostre emozioni. Sappiamo che sono il sale della vita ma, nello stesso tempo non sempre le riteniamo opportune. In quel caso la mia rabbia mi sembrava del tutto inopportuna. Visto che avevo deciso mi sarei aspettata che si placasse. Come mai non succedeva? O, forse, dovrei estendere la domanda in senso più ampio, come mai decidiamo qualcosa ma una parte di noi lo fa di malavoglia? Come mai non c’è l’unanimità nemmeno dentro di noi? Quello che succede quando siamo ambivalenti è che la nostra parte adulta ha preso una decisione (in genere è la nostra parte adulta che decide ma non è una regola) e una partebambina protesta. Come prima cosa proviamo a definire cosa significa “partebambina”. Il termine in sé potrebbe sembrare svalutativo. In realtà non vuole esserlo, vuole, piuttosto, essere esplicativo. Durante la nostra crescita ci sono parti di noi che abbiamo sacrificato: sono parti legate ad emozioni che abbiamo ritenuto pericolose o inadeguate. Non sono singoli episodi ma, piuttosto aggregati di numerose situazioni con lo stesso filo conduttore. Tanto che si sono organizzate come se fossero un “altro da noi”, che vive dentro di noi ma di solito è dormiente. Dorme fino a che non accade qualcosa di simile all’esperienza originaria. Allora si sveglia, protesta e ci mette nell’ambivalenza o nell’incertezza. Io preferisco l’incertezza.
La differenza tra incertezza e ambivalenza: l’ambivalenza
Nell’ambivalenza queste due parti esprimono movimenti opposti ma ugualmente vitali. L’ambivalenza è alla base di tutti i nostri comportamenti di dipendenza – dipendenza da cibo, sostanze, lavoro, relazioni tossiche. Per convincere la parte sommersa a rimanere sommersa la riempiamo di gratificazioni tossiche. Speriamo così che ci lasci in pace e non ci rendiamo conto che stiamo aprendo una lunga guerra di mantenimento, ognuno delle proprie reciproche posizioni. Io volevo giocare, ero una bambina come tante che voleva giocare e perdere tempo. Crescere per me ha voluto dire mettere ordine in questo apparente dis-ordine che era la mia creatività infantile. In effetti in questi giorni avrei voluto dedicarmi ad altro, senza nessuna scadenza e questo lavoro imprevisto mi costringeva, di nuovo, al dovere. La speranza della gratificazione futura è sempre stata la mia esca: ha funzionato anche stavolta. L’emozione ribelle è stata tenuta a freno – l’ambivalenza è stata tacitata dalla dipendenza al lavoro e dalla prospettiva della gratificazione futura – e obtorto collo mi sono messa al computer. Questo è lo schema dell’ambivalenza: senza una forma di dipendenza la repressione non basta. L’ambivalenza funziona perché siamo dipendenti da qualcosa. Io sono dipendente dalla speranza di una gratificazione futura. Considerata la mia età dovrei incominciare a rivedere questo aspetto!
Si può credersi o dichiararsi angosciati per un motivo, ed esserlo per tutt’altro: credere di soffrire davanti al futuro, e soffrire invece per il proprio passato; credere di soffrire per gli altri, per pietà, per com-passione, e soffrire invece per motivi nostri, più o meno profondi, o meno confessabili e confessati; talvolta cosi profondi che solo lo specialista, l’analista delle anime, li sa disseppellire. Primo Levi
La differenza tra incertezza e ambivalenza: l’incertezza
Forse ti domanderai che differenza c’è tra incertezza e ambivalenza. Io me lo sono domandata spesso. L’ambivalenza ha, in sé e per sé, qualcosa di statico, infatti siamo ambivalenti sempre sulle stesse cose – io tra giocare e lavorare – e più o meno l’ambivalenza fa emergere una sofferenza conosciuta e irrisolta. L’incertezza invece è dinamica ed è il tentativo di mettere insieme aspetti diversi, di farli incontrare in una sinestesia che unisce mente e cuore (la sinestesia è l’unione di percezioni sensoriali che provengono da sensi diversi: è sinestetico il profumo del caffè e il suo gusto e il gesto di preparare la macchinetta, di aspettare che il caffè, versato nella tazzina, sprigioni il suo profumo e raggiunga la giusta temperatura per essere bevuto). In quell’attesa dialogica tra mente e cuore siamo in un processo, per questo siamo incerti. Aspettiamo che il processo porti ad una sintesi e che, da quella sintesi, proceda il nostro movimento. Nell’incertezza non sappiamo come andrà a finire – mentre nell’ambivalenza spesso lo sappiamo bene – ma abbiamo deciso non in ordine al risultato da ottenere ma in ordine alla nostra scelta. Diversa quindi l’incertezza dall’insicurezza.
La differenza tra incertezza e insicurezza: l’insicurezza
Visto che mi sono messa d’impegno a fare quel lavoro che non volevo fare ho avuto anche modo di chiarirmi l’idea della differenza tra incertezza e insicurezza. L’incertezza è il processo della scelta e ha l’ombra della perdita e della possibilità. Non conosco niente di più bello, per me, di stare nell’incertezza e arrivare a scegliere. È uno dei pochi lussi – rari, preziosi, benedetti – che mi concedo. Sto lì a perder tempo e trovo un sacco di cose. L’insicurezza invece è sorella dell’ambivalenza. È perché siamo insicuri dei nostri mezzi e delle nostre possibilità che scegliamo la ripetizione costituita dalla dipendenza e dall’ambivalenza. Nell’insicurezza ci aggrappiamo alla prima cosa apparentemente solida che troviamo e spesso, troppo spesso, ci aggrappiamo proprio al nostro persecutore: lo schema di dipendenza.
Ma cos’era quella voce che si ribellava all’idea di lavorare? Era la rabbia per la promessa mancata, era la speranza di condivisione delusa, era il ritornello, “devi farcela da sola”. Era la ribellione dei deboli, il No dei bambini che è destinato ad essere vinto. Era una “partebambina” che non è affatto bambina: ha circa 100 anni, forse 1000 anni. È bambina solo perché aspetta di essere ascoltata come tutti i bambini aspettano che la mamma o il papà venga a prenderli a scuola. Non possono tornare a casa da soli. Aspettano. Ecco la nostra partebambina aspetta ma non crediate che sia infantile, sciocca, capricciosa. La nostra parte bambina è quello che abbiamo sommerso per poter dire di esserci salvati.
I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Primo Levi
La rabbia e la compassione
La rabbia è il mio campanello d’allarme. Quando mi arrabbio è sempre perché la mia parte sommersa mi vuole avvisare che sto esagerando. Così posso dire che questa emozione, così scomoda e che gode così poco credito tra le persone ben educate, mi ha salvata in molte occasioni. Kurt Vonnegut diceva che bisogna parlare la propria lingua d’infanzia. In quel momento si è autentici e le cose che si dicono arrivano autentiche anche a chi non ha parlato la stessa lingua nell’infanzia. Sono nata e cresciuta in Toscana e forse solo chi ha visto il primo Benigni, quello che non recitava la Divina Commedia ma faceva in un orario improponibile Onda libera (detto anche Televacca) può avere un’idea di come si parla in Toscana. Si parla male, malissimo, un linguaggio franco, diretto, al limite della crudeltà, pieno di scherzi e prese in giro. Ferisce eppure, ferendo, libera. Da qualche parte quel linguaggio lì è dentro me, non so con quale cassetto poetico l’ho coperto ma so che il mio amore per Bukowsky, nasce da lì. Perché quel linguaggio è un linguaggio da ubriaconi (e in Toscana, nei paesi piccoli, il vino era una grande compagnia) ma è un linguaggio che mi ha permesso di scoprire che forse la rabbia può essere la forma più alta di premura e compassione. Come dice David Whyte (così torno a parlar bene)
Rabbia è la forma più profonda di premura: per un’altra persona, per il mondo, per sé stessi, per una vita, per il corpo, per una famiglia e per tutti i nostri ideali, tutti vulnerabili e tutti, forse, in procinto di essere feriti. Spogliata della prigionia fisica e della reazione violenta, la rabbia punta alla forma più pura di compassione. la fiamma viva interiore della collera illumina sempre ciò a cui apparteniamo, ciò che desideriamo proteggere, e tutto ciò per cui siamo disposti a rischiare anche a costo di mettere in pericolo noi stessi. David Whyte
Famiglie interiori
Così, cara la mia partebambina che aspetti da millenni la riscossa, la libertà dal giogo dell’altalena di approvazione/disapprovazione, risposte future e promesse irrealizzabili, la tua rabbia è giusta e merita di essere ascoltata. Merita che trasformi la mia ambivalenza e insicurezza in incertezza. meriti che rispetti la tua voglia di perdere tempo, di un tempo perso che è un tempo assolutamente ritrovato. Merita che ascolti Onda libera e che ogni tanto riprenda le sue trasmissioni. Merita che tu riconosca che la rabbia è il guscio duro che difende un sentimento morbido dentro e un diritto universale che è stato negato. Merita che dal dis-ordine della tua famiglia interiore nasca una nuova famiglia in cui crescere. Perchè di crescere non perdo mai la voglia.
© Nicoletta Cinotti 2021
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