
Una delle maggiori spinte alla ricerca è la spinta dell’insoddisfazione.
Ad un certo punto, prima o poi, è capitato a tutti di dirsi “Tutto qui?” e di partire, sulla spinta di questa domanda, a cercare qualcosa di nuovo.
E’ altrettanto probabile che, ad un certo punto della nostra ricerca, ci sia venuta in mente l’idea che, almeno in parte, l’insoddisfazione nasceva non da una reale carenza ma da una incapacità a provare appagamento. Una incapacità che ci porta a muoverci continuamente e, spesso, vanamente.
Cosa facciamo quando siamo scontenti?
Quando siamo scontenti facciamo una serie di cose che dovrebbero portarci una piccola felicità e che, invece, ci avvitano sempre più nell’insoddisfazione. Qualche esempio? Mangiamo qualcosa, o fumiamo o beviamo. Dopo ci sentiamo in colpa perché l’abbiamo fatto. Andiamo su internet e navighiamo – verso lidi più o meno leciti – per ore sentendoci, alla fine, più frustrati che mai! Rimandiamo di telefonare, uscire, incontrare qualcuno perché non ci sentiamo ” a posto” e siccome non ci sentiamo a posto ci consoliamo con altro cibo, fumo o internet
Insomma veniamo trascinati in un circolo vizioso che ci porta sempre più in basso e che ci rende sempre più sfiduciati rispetto alla possibilità di maturare delle buone abitudini. Rimandiamo all’infinito cose che ci farebbero bene, e siamo frequentemente preda di ansia, rabbia o frustrazione.
Spesso, molto spesso, il punto è che abbiamo un ideale o una fantasia su come dovrebbero essere le cose e non abbiamo abbastanza fiducia di essere in grado di realizzarlo. Oppure pensiamo che la soddisfazione sia patrimonio esclusivo di alcune persone che la ricevono senza sforzo e senza impegno.
L’appagamento indiano
Molti anni fa feci un lungo viaggio in India, con una permanenza in un ashram per un mese. Coincideva con una importante festività indiana e l’ashram era stracolmo di fedeli occidentali e indiani. Consapevoli delle diverse abitudini degli ospiti, gli occidentali erano alloggiati in edifici e gli indiani dormivano in enormi tendoni che arrivavano a contenere anche trecento letti ciascuno. La temperatura era molto alta e tutto era reso più caldo dalla presenza di così tante persone. Gli occidentali, come me, dormivano in piccoli edifici e in stanze da circa 5/10 letti al massimo. Erano stanze con finestre e porte e un rudimentale bagno. Comodità assolutamente inesistenti per chi dormiva in tenda che non aveva armadi, né bagni a sua disposizione.
Nella sontuosità delle celebrazioni era molto facile sentire le lamentale sull’alloggio da parte degli occidentali. Nemmeno un indiano – e parlavano anche loro inglese – alzava un lamento sulla loro, svantaggiata, soluzione abitativa. Questa constatazione – banale – di come non sia la comodità a dare appagamento mi aveva molto colpito. Perché avveniva? In parte credo che gli occidentali paragonassero il loro alloggio a quello che ritenevano uno standard minimo, mentre gli indiani non paragonavano. Erano lì per meditare e tutto il resto era appagante perché gli permetteva di farlo.
L’idea che l’appagamento possa arrivare in un momento futuro, a condizione che si realizzino certi obiettivi e circostanze – idea molto diffusa – non è assolutamente funzionale ed è una bella fonte di stress! Rischia di alimentare un circuito di insoddisfazione e scontentezza. Ma possiamo abbandonarla? Forse ne varrebbe davvero la pena!
La relazione con se stessi
La differenza principale tra i meditanti indiani e i meditanti occidentali era, a mio parere, un’altra cosa. Era la loro relazione con sé stessi. Gli occidentali sentivano il disagio della loro condizione come un evento che toglieva valore a loro come persone. Gli indiani erano totalmente immuni a questa fantasia.
Spesso l’insoddisfazione non nasce dalle condizioni sfavorevoli esterne ma dall’identificarsi con il risultato delle nostre azioni. Se vanno bene siamo bravi. Se non vanno bene è colpa nostra e meritiamo una sorta di pena per questo fallimento. Il fatto che ci siano condizioni esterne che lo determinano, è del tutto secondario. Il nostro alloggio indiano era un vero privilegio per quell’ashram. Erano orgogliosi di poter offrire una sistemazione così comoda ed esterrefatti di tutti i problemi che, invece, venivano a galla continuamente.
L’identificarsi con il risultato nasce da una basilare sfiducia nelle proprie possibilità e nella nostra relazione con noi stessi. Non ci fidiamo e, in più, ci giudichiamo sulla base di ideali spesso poco raggiungibili, per non dire francamente impossibili.
Per provare appagamento dovremmo lasciare questi ideali irrealistici. Altrimenti, come dice Lowen, prima poniamo obiettivi irrealistici e poi siamo in uno stato di disperazione nel vano tentativo di realizzarli. Possiamo abbandonarli? Possiamo accogliere che, anche se qualcuno li realizza, non siamo obbligati a realizzarli anche noi, per essere degni di vivere?
Quando le cose vanno male
Tutto questo ha molto a che vedere con la filastrocca del diventare. Spostiamo l’appagamento verso il futuro e verso il raggiungimento di un obiettivo. Un obiettivo che, proprio perché non l’abbiamo ancora realizzato, speriamo di realizzare e, nello stesso tempo, ci sembra irrealizzabile. Quando ho scritto il post mi sono domandata se ero stata giusta nei confronti delle tante persone che hanno un grande dolore fisico e emotivo. So che in quelle situazioni la speranza di stare meglio è fondamentale. Il punto è che spostarla all’esterno e al futuro non fa stare meglio. Fa solo sforzare e spingere verso qualcuna delle mete che ci siamo posti. Anche se può sembrare strano, quando soffriamo la cosa che può darci pace, se non appagamento, è volgere lo sguardo all’interno, sospendendo il giudizio. Guardando all’interno potremmo trovare quelle cose di noi che ci rendono felici. Quegli aspetti nei quali siamo appagati. Oppure, semplicemente, potremmo trovare la parte vitale di noi: il nostro respiro.
Scontenti degli altri
Se siamo scontenti di noi non possiamo dire di essere contenti degli altri. Anche qui spesso le nostre idee su come dovrebbero essere le persone che amiamo, su cosa dovrebbero fare per renderci felici, sono una grande fonte di insoddisfazione. Ogni relazione ha una via di fuga. Se ci rende davvero infelici, perché non andarcene, anziché pretendere che l’altro cambi? E se non è un problema così grande da andarcene, perché non domandarci se abbiamo una visione reale di quella persona? Come mai non guardiamo quello che funziona nella nostra relazione e pensiamo che la soluzione possa essere che l’altro cambi per un nostro problema?
L’appagamento, in fondo, è lasciar andare. Lasciar andare i nostri ideali, le nostre fantasie su come dovrebbero essere le cose e lasciar brillare la luce e l’ombra della realtà.
© Nicoletta Cinotti 2023
https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-protocollo-mbsr-edizione-online/
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