
Parlo spesso del cambiamento; in parte perché siamo soggetti a continui cambiamenti, volenti o nolenti. In parte perché – a parole – le persone sembrano sempre molto interessate a cambiare e poco interessate a rimanere nella situazione in cui si trovano. Le cose però non stanno esattamente in questo modo. Ognuno di noi ha un nucleo di resistenza al cambiamento che viene alimentato dal senso di sicurezza che ci offre la situazione conosciuta. Per alcune persone poi il cambiamento è veramente destabilizzante.
Non sono solo gli abitudinari ad amare la situazione attuale. Lo siamo un po’ tutti perché associamo il cambiamento ad una sensazione di pericolo che ci viene dall’incontro con le cose sconosciute della vita. Abbiamo molti strumenti per affrontare il conosciuto, gustarci il senso di stabilità, e pochissimi strumenti per apprezzare l’immergersi in una situazione nuova. Succede perché la stabilità della situazione ci permette di appoggiarci all’esterno mentre la novità ci chiede di appoggiarci all’interno.
Cosa vuol dire appoggiarci all’esterno? Vuol dire che, nel momento in cui riconosco la mia scrivania, la sedia in cui passo il mio tempo, la tastiera del computer, quegli oggetti, per quanto inanimati, sono riconosciuti come una parte di me che mi consente di realizzare qualcosa. Mi danno un accresciuto senso di potenza e stabilità che viene dal sapere che azioni mi permettono di compiere. Sono come un prolungamento di me che accresce il mio senso di sicurezza.
Se, invece, questo ambiente non ci fosse sarei costretta a tenere la mia attenzione solo su di me, sulle mie capacità e sull’ambiente interno. Avrei una misura delle mie capacità proporzionata alla mia persona, senza prolungamenti che mi rafforzano all’esterno. E se sono insicura questo mi farà sentire debole e sperduta.
Quando faccio i gruppi o i ritiri la prima cosa che le persone cercano è se c’è qualcuno che conoscono perché questo fa percepire l’ambiente meno estraneo. Dopo, magari, si lamentano del fatto che ci siano persone che conoscono perché questo li può far sentire meno liberi. ma l’affetto che proviamo per il conosciuto è parte di noi. Esprime la nostra storia all’esterno.
Con gli anni che passano sono infinitamente grata allo sconosciuto. Perché mi tiene viva, suscita la mia curiosità e quella qualità particolare di presenza che è l’interesse. So bene che è perché ho più fiducia nei miei mezzi. So bene che è la mia maggiore fiducia che mi permette di apprezzare l’essere aperta e quindi vulnerabile. Coltivo così quel sentimento fertile e umido che è la tenerezza. La tenerezza è il terreno in cui crescono cose nuove. Senza tenerezza nessun apprendimento è possibile perché, per aprirsi all’imparare, abbiamo bisogno di quell’attimo aperto e vulnerabile che ci offre la tenerezza. Come sarebbe triste il mondo se tutto diventasse conosciuto!
Se l’uomo non svanisse mai come il fumo su Toribeyama, ma durasse per sempre in questo mondo, quante cose perderebbero il loro potere di commuoverci. La cosa più preziosa nella vita è la sua incertezza. Kendo
Pratica di mindfulness: Cullare il cuore
© Nicoletta Cinotti 2019 Vulnerabili guerrieri
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