
Negli anni del liceo, per un po’ di tempo, mi ero appassionata di fotografia. Erano i tempi delle fotografie analogiche in cui dovevi regolare tu esposizione, tempo di esposizione, messa a fuoco, tipo di obiettivo. E avevi un rullino da 36 che, con le foto in bianco e nero, potevi stamparti a casa. Ogni scatto comunque un costo, che lo scatto fosse venuto bene oppure no. Un lavoro tutt’altro che automatico. Una esposizione sbagliata rendeva la foto troppo luminosa, troppo buia, oppure mossa. Insomma richiedeva una certa precisione.
Non è lo stesso oggi: con il digitale diventa molto difficile sbagliare foto ma, in qualche modo, l’esposizione è ancora centrale.
Siamo una società visiva
Molte delle condivisioni sui social sono immagini: le storie di Facebook, quelle di Instagram e la nostra vita è esposta continuamente allo sguardo degli altri. Il senso di pudore è cambiato, il desiderio di conoscere qualcosa in più degli altri è aumentato. Una volta i paparazzi venivano denunciati per foto che, adesso, sono gli stessi personaggi a rendere pubbliche.
Cosa c’è dietro il nostro bisogno di esposizione?
Il segreto professionale
Nella mia professione siamo legati al segreto professionale. Un segreto a doppia versione: non rivelare ciò che dicono i pazienti e, fino a qualche anno fa, non rivelare i particolari della tua vita. Quando ho iniziato la professione non era insolito chiedere prima chi ci sarebbe stato ad una cena per evitare incontri che potevano rompere la propria privacy. Non dicevamo dove abitavamo, dove andavamo in vacanza (e se andavamo in vacanza), se eravamo sposati o avevamo figli. La nostra doveva essere una figura nell’ombra in modo che il paziente potesse proiettare su di noi qualunque immagine. Oggi non è più così. Ovviamente ognuno lo fa con sensibilità diverse e personali ma non nascondo dove abito e altri aspetti della mia vita privata. Oltre al fatto che, spesso, racconto episodi che mi riguardano. La mia vita è più esposta e ha una consistenza tangibile. Non lo faccio con le foto – ti faccio fare la fatica di leggere – ma probabilmente il mio livello d’esposizione è simile a quello della collega che va in vacanza con il marito e posta quello che mangia, dov’è e cosa fa, giorno per giorno.
Perché abbiamo bisogno di più esposizione?
Ovviamente la mia è una ipotesi, un parere personale ma non impulsivo: abbiamo bisogno di più esposizione perché siamo più fragili, più consapevoli della nostra personale fragilità e con confini familiari molto mutati. Una volta i panni sporchi si lavavano in famiglia. Oggi avercela una famiglia non è scontato. Affatto. Il gruppo dei pari, degli amici è la famiglia soggetta ad incertezze, cambiamenti e rotture. Le relazioni sono instabili. Il 65-70% dei miei pazienti ha avuto più relazioni “durature” nella vita. Il 10% non ha mai avuto una vera e propria relazione. La percentuale di persone con figli è del 25%. Il restante 20-25% ha una relazione, che, spesso, è la ragione per cui sono in terapia. È chiaro che non è un campione realistico: è il campione da stanza della psicoterapia. Non so però quanto si discosti dalla realtà. Stessa cosa riguardo al lavoro: quando incontro una persona sui trent’anni che ha un lavoro stabile mi sorprendo. Non dico che sia meglio o peggio: dico che siamo molto più esposti all’imprevedibilità e all’incertezza delle alterne vicende della vita. Esporci è un modo per suscitare simpatia, creare legami (anche se Bauman li definiva legami fragili hanno comunque un impatto).
Aumentando l’esposizione aumentano però anche i pericoli che l’esposizione comporta: troppo esposti o troppo poco esposti diventa un problema, come per le fotografie di una volta.
La paura del successo
Apparentemente siamo tutti molto interessati al successo. Però senti cosa dice Milagros Sanchez, una scrittrice messicana-americana:
Se avrò successo il mio lavoro sara pubblicato. Sarà visto da persone più sofisticate e colte che sanno di cosa stanno parlando, che si aspettano risposte che non ho e che sanno andare più in profondità di quello che so fare io. Quello che ho rivelato può non essere sufficiente. Chiederanno di più e temo che non sarò in grado di rispondere. Scopriranno che sono un fake, un falso sé; io stessa scoprirò che non sono così profonda. Dovrò essere consapevole della mia presentazione prima di farlo con gli altri. Sarò costretta a promuovermi, a mettere in mostra i miei successi; dovrò avere a che fare con critici professionisti. La mia maestria artigianale sarà sezionata e ciò che è importante per me sarà respinto o banalizzato…ho paura di perdere la mia anima. …Se ci riuscirò e avrò successo ho paura di cosa significherà…citato in Pat Schneider
L’esposizione ci mette in contatto con un grado maggiore di vulnerabilità. Anche se lo facciamo in maniera un po’ “piaciona”, esponiamo qualcosa di vivo, di tenero e vulnerabile e l’attacco degli haters ci spaventa. Come ci spaventa il giudizio degli esperti o degli amici. Quello che è lì – in parole o in immagine – è comunque una parte di noi. Solo se siamo cinici possiamo esporci senza rischi: abbiamo già realizzato il rischio peggiore, perchè diventare cinici è il rischio peggiore che corriamo quando siamo sovraesposti.
La forza dell’autenticità, la forza della rete
Qual è quindi il vantaggio di tanta esposizione? Costruire reti solidali. Ho conosciuto, in rete, veri amici. Persone che altrimenti non avrei potuto incontrare. C’è una rete nella rete: quella fatta da gruppi di persone con interessi omogenei che si connettono e ampliano le proprie prospettive. Le incontri come specchio della tua autenticità. Anche in rete vale lo stesso proverbio “Se ti assomigli, ti pigli“. Essere in rete moltiplica la nostra forza. Sto navigando nella rete dei blog di mamme: sono straordinari. Meglio di 1000 nonne messe insieme. A volte sono genitori che vivono condizioni difficili per un problema fisico o emotivo dei loro figli. A volte sono genitori che condividono la loro esperienza e arricchiscono così, con semplicità, la vita di tutti. Navigo molto anche tra i siti di scrittura. Da Luisa Carrada in poi ho incontrato tantissimi amici di scrittura: forse alcuni non li incontrerò mai fisicamente ma tutti mi parlano. Ad una condizione: che sia chiara la loro voce. L’autenticità è un valore che traspare. Riconosco una voce autentica anche se si tratta solo di uno scritto o di una fotografia. Delle voci autentiche mi fido. Perché la fiducia ha bisogno di passione, embodiment e consapevolezza. Embodiment non significa solo essere coerenti ed essere sé stessi. Significa farlo in modo vantaggioso per il processo di apprendimento collettivo. I siti che vi citavo prima sono tutti siti personali ma offrono qualcosa di prezioso per il processo di apprendimento collettivo. La rete ci regala questa straordinaria generosità! Questo significa anche stare in una sorta di tensione dialettica (mi viene in mente Hegel ma te lo risparmio) tra chi siamo e chi stiamo diventando. Tutto quello che si offre statico e realizzato perde velocemente autenticità. Fa parte della terra di Egoland e non ci porta molto lontani. Insomma se c’è passione, embodiment e consapevolezza, fidati! Verrà fuori un bell’album di fotografie fatte insieme anche se non vi incontrerete mai!
© Nicoletta Cinotti 2019
Se ti interessi di fotografia per scopi personali o professionali, se usi la fotografia per il tuo blog ti consiglio questo libro dell’amico Federico Montaldo, avvocato e fotografo (o viceversa). Non ho mai avuto bisogno di lui come avvocato ma se dovessi scegliere un avvocato sceglierei lui, perché il suo occhio fotografico è pieno di umanità!