
Thich Nath Hanh affermava, con la sua consueta semplicità, che la compassione è un verbo, perché ci invita all’azione. Compassione significa soffrire insieme ad un altro, partecipando alla sua sofferenza. L’enfasi, come l’etimo della parola fa intuire (cum + pati = soffrire con), è centrata sul coinvolgimento personale con la sofferenza altrui, non solamente sul dare agli altri.
KARUNA – che significa compassione sia in pali che in sanscrito – deriva dal verbo “KAROTI” (fare) e significa anche fare qualcosa per qualcuno. Quando un’altra persona è nel dolore la risposta appropriata è agire in modo da rimuovere la causa della sua afflizione. KARUNA, quindi, non è solo soffrire con qualcuno, quanto operare per dare sollievo alla sofferenza. È avere iniziativa in tal senso.
Compassione e gentilezza
Compassione e gentilezza sono due aspetti che si tengono vicini, perché la gentilezza implica il prendersi cura della sofferenza altrui come se fosse la propria. Una gentilezza che non abbia in sé stessa un elemento di compassione e una compassione che non abbia in sé un elemento di gentilezza è, infatti, impensabile.
Sia la gentilezza che la compassione richiedono che sviluppiamo prima gentilezza e compassione verso noi stessi. Un’accettazione della nostra esistenza che sia sentita, calorosa e avvolgente deve rimpiazzare tutti i sentimenti di auto-denigrazione e disprezzo verso noi stessi. Alan Wallace
La gentilezza della pratica di Metta ha uno sguardo in prospettiva: non perdendo di vista la realtà, mette un augurio che potrebbe realizzarsi in futuro e la fa vivere nella nostra immaginazione. La compassione invece testimonia la sofferenza delle persone e ha, come le altre dimore divine, un nemico vicino e uno lontano.
Il nemico vicino e lontano della compassione
Il dolore, quando diventa sopraffacente, è il nemico vicino della compassione, perché ci rende paralizzati e incapaci di muoverci. A volte potremmo pensare che preoccuparci degli altri sia compassione ma se ci trascina in un vortice, diventa una specie di fardello mentale in cui l’oggetto del dolore è l’unica realtà che consuma e schiaccia tutto.
Il nemico lontano della compassione è, invece la crudeltà. Una condizione in cui la mente è sprofondata nell’illusione che l’altro – il nemico – non sia un essere umano come noi ma qualcuno di inferiore. Nell’estremo della crudeltà l’illusione è credere di fare qualcosa di buono e giustificare la crudeltà stessa a fronte di un bene superiore, che autorizza ad operare senza impedimenti.
È anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale. Hannah Arendt
Idealmente
Idealmente dovremmo essere in grado di trasformare l’avversità in un’opportunità per una felicità più grande. Usare l’avversità per approfondire la nostra saggezza e compassione, trasformando così il dolore in qualcosa che possiamo abbracciare. Questo è l’ideale. La realtà è che, spesso, si tratta di un processo, complesso e difficile, che porta verso la comprensione e la compassione.
Una delle radici della compassione è il riconoscimento dell’interdipendenza tra noi e gli altri. Il dolore, il problema che affronta l’altro, quando proviamo compassione, non è sua esclusiva preoccupazione. Può essere anche nostra preoccupazione. Il nucleo dell’interdipendenza è la connessione che c’è tra tutte le cose. Una connessione che rafforza il senso di appartenenza e la condivisione.
Possiamo osservare la naturale attitudine alla compassione nel mondo intorno a noi. Può succedere spesso di essere “mossi a compassione”. Nella nostra vita quotidiana, tutti noi sperimentiamo il sentimento della compassione, vedendo soffrire qualcuno che amiamo ma anche quando vediamo soffrire uno sconosciuto o un animale. Per strano che possa sembrare esplorando la compassione e l’empatia la neuroscienziata Tania Singer ha scoperto che la compassione attiva gli stessi circuiti cerebrali della ricompensa mentre l’empatia attiva quelli del dolore. Ci aspetta quindi, alla fine della compassione, la gioia.
La compassione riguarda tutti
La compassione però, se partiamo dalla prospettiva dell’interdipendenza, non è solo un’emozione rivolta alle persone che amiamo. Può estendersi nei confronti di tutti.
Attraverso questa comprensione della realtà interconnessa arriviamo a capire che, se agli altri accadono cose buone, anche noi ne trarremo vantaggio, se non immediatamente, di certo prima o poi. Se loro soffrono, prima o poi soffriremo anche noi. Perciò siamo più capaci di simpatizzare anche con persone di origini molto diverse dalle nostre. La compassione per loro nasce con più facilità. Dalai Lama
Nel 2005 David Foster Wallace tenne uno storico e ormai famoso discorso sulla compassione agli studenti del Kenyon College. E, con la sua consueta intelligenza e originalità, disegnò un percorso in 5 punti verso la compassione; una sorta di vademecum per gli studenti che stavano per affacciarsi al mondo e alla loro vita adulta.
1. Pregiudizi e stereotipi
L’educazione dovrebbe insegnarci come pensare. Raramente, però, cerchiamo di guardare cosa significhi davvero pensare. Pensare – dice Wallace – significa essere un po’ meno arroganti e avere consapevolezza di quanto poco conosciamo e comportarsi di conseguenza.
Avere un po’ di consapevolezza critica su noi stessi e sulle nostre certezze è importante. Tendiamo ad essere automaticamente certi di quello che pensiamo, anche se poi si rivelerà totalmente sbagliato e ci lascerà delusi. L’ho imparato a mie spese e anche voi lo imparerete a vostre spese. David Foster Wallace
L’educazione è un processo che dura tutta la vita e che strappa le convinzioni più profonde, gli stereotipi, per insegnarci a trascendere la nostra limitata prospettiva, permettendoci così di pensare in maniera più aperta e ampia. Per Wallace, questo è un modo per andare al di là dei confini della nostra mente.
2. Crescere è un movimento che va dal narcisismo alla connessione
Il nostro modo di vivere e pensare è fondamentalmente auto-centrato – prosegue Wallace – è naturale vedere tutto in relazione a noi stessi. Questo modo però costruisce – di default – una visone egocentrica del mondo.
Ogni aspetto della nostra esperienza immediata sostiene la mia profonda convinzione che sono il centro dell’universo; la persona più vivida, reale e importante che sia in vita. Wallace
Questa convinzione auto-centrata però ci impedisce di coinvolgerci in modo consapevole e compassionevole con il mondo. Il nostro lavoro, come persone, è quello di scegliere in ogni momento, ogni giorno, di andare al di là di questo schema di pensiero auto-centrato.
È una scelta personale quella di fare il lavoro che ci permette di andare al di là del nostro abituale modo di pensare auto centrato e di vedere e interpretare ogni cosa alla lente del nostro sé. Wallace
3. Rimanere aperti e consapevoli
La nostra mente è naturalmente indisciplinata. Per questa ragione, se vogliamo vivere con un senso di pace e di libertà è necessario averne padronanza. Come dice il proverbio “La mente è un eccellente servitore ma un pessimo padrone”.
È estremamente difficile rimanere attenti e presenti, invece che ipnotizzati dal costante dialogo interiore che si realizza nella nostra mente. Eppure, imparare a rimanere attenti e presenti, è fondamentale per imparare come pensare. Se sappiamo esercitare qualche tipo di controllo su come e cosa pensiamo, diverremo anche sempre più in grado di scegliere a cosa prestare attenzione e a come costruiamo il significato delle nostre esperienze.
Come evitare di passare attraverso la nostra vita – confortevole, prospera e rispettabile – senza essere inconsciamente schiavo dei propri pensieri? Come non essere uno schiavo della mente e delle modalità automatiche di risposta, totalmente isolato nel passare dei giorni? David Foster Wallace
È necessario scegliere come rispondere ai piccoli e grandi problemi della nostra vita. Come rispondere quando qualcosa non va nella direzione che vorremmo, perché è proprio in quei momenti che scegliamo come e cosa pensare.
4. Creare il proprio significato
Imparare come pensare ci dà la libertà di costruire il significato della propria esperienza. Scegliere cosa è importante e cosa non lo è.
Adesso vi prego di non pensare che io voglia farvi una lezione sulla compassione o la sincerità o altre cosiddette “virtù”. Il problema non è la virtù. Il problema è di scegliere di fare il lavoro di adattarsi e affrancarsi dalla configurazione di base, naturale e codificata in noi, che ci fa essere profondamente e letteralmente centrati su noi stessi, e ci fa vedere e interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. Le persone che riescono ad adattare la loro configurazione di base sono spesso descritti come “ben adattati”, che credo non sia un termine casuale. David Foster Wallace
5. Essere buoni con gli altri
Educare la nostra mente ha uno scopo essenziale: essere meno autocentrati e più in connessione con gli altri. Per scegliere la strada della compassione più possibile.
Il tipo di libertà davvero importante è quella che coinvolge – dice Wallace – attenzione, consapevolezza e disciplina e la capacità di essere sinceramente coinvolti con gli altri, disponibili in una miriade di modi semplici e banali, ogni giorno.
E adesso?
Personalmente, penso che la compassione debba fluire con naturalezza dal cuore di ciascuno, perché se agiamo con il pensiero che aiutare gli altri porterà meriti, non agiremo per autentica compassione.
Siamo sulla terra per un periodo limitato di tempo; durante questo periodo cerchiamo di fare qualcosa di buono – dice il Dalai Lama. Cerchiamo la pace e aiutiamo gli altri a condividere questa pace.
Gesù, “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”.
Il termine biblico «compassione» richiama le viscere materne: la madre, infatti, prova una reazione tutta sua di fronte al dolore dei figli. Così ci ama Dio, dice la Scrittura. E qual è il frutto di questo amore, di questa misericordia? E’ la vita!”. (Angelus, 9 giugno 2013) Papa Francesco
Bisogna essere convinti che non si tratta solo di praticare con la testa, ma col cuore e dal cuore spontaneamente con il corpo.
Nell’insegnamento buddista c’è l’idea della “compassione senza intenzione” (analambana-karuna), nella quale non c’è chi dà né chi riceve, e nemmeno il dono che passa dall’uno all’altro. Questo è chiamato la purezza dei tre cerchi (tri-mandala-visuddhi). Evita il pensiero “sono compassionevole” o “ho agito con compassione”. Questi sono segni che non si tratta di una compassione “pienamente realizzata”.
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