
Forse avrai sperimentato anche tu la situazione di essere talmente immerso nei pensieri da non accorgerti di quello che stai facendo. Oppure di non sentire qualcuno che ti sta chiamando proprio perché ti trovi assorbito dentro un treno di pensieri. I pensieri sono come un treno: fanno tanto rumore che a volte non è possibile sentire nient’altro e scorrono – come vagoni – uno dietro all’altro, senza interruzione.
Che fare quando siamo nella affollata stazione ferroviaria della nostra mente? Come trattare i pensieri? Sono significativi o sono una distrazione? Ci permettono di capire qualcosa in più o offrono una narrazione discutibile e personale della vita?
Che cosa fa muovere la mente?
Probabilmente molti dei nostri pensieri sono legati a progetti, piani per il futuro o considerazioni sul passato. Dialoghi in cui ci prepariamo a sostenere una conversazione immaginaria o in cui ci mettiamo a ripassare una conversazione che abbiamo realmente avuto ma che non è andata esattamente come avremmo sperato. Che cosa cerchiamo di evitare con tutto questo sperare, progettare, fantasticare e ricordare? Oltre che prendere nota di tutto questo movimento forse dovremmo, a questo punto, prendere nota di cosa lo mette in moto e iniziare a sfogliare, strato dopo strato, la sua natura mutevole.
Può succedere di accorgersi che certi pensieri sorgono quando ci sentiamo desiderosi di qualcosa e che altri compaiono quando il nostro umore è più basso (o più alto) del solito. Potremmo scoprire che sotto molti pensieri si nascondono, in realtà, emozioni. Potremmo scoprire che la mente cerca solo di dare un po’ di ordine alla confusione di emozioni che ci abitano. E scoprire che questo tentativo non è necessario e, soprattutto, non funziona. Quello che funziona è, stranamente, accettare la confusione, riconoscerla, nominarla, sentirla e mollare la presa.
Passare dal contenuto al processo
Detto in parole semplici il cambiamento arriva quando spostiamo l’attenzione dal contenuto dell’esperienza al processo e al suo divenire. Perché funziona? Perchè non solidifichiamo ma lasciamo che le cose fluiscano e si trasformino. Funziona perché, invece che andare a scavare, andiamo ad aprire e seguiamo il processo. Sembra un’eresia visto che siamo così abituati a dare attenzione al contenuto. Eppure non sempre il contenuto è la salvezza. Il contenuto ci illude che sia quello il luogo dove trovare la soluzione e invece ci fa salire sul treno e, una volta saliti sul treno, costruisce un insieme di vagoni legati tra loro da associazioni e connessioni. Siamo convinti che pensare sia un’arte nobile: a volte è un modo per disperderci e disperdere la bellezza della presenza. Non possiamo evitare di pensare – e sarebbe un peccato crederlo – ma non possiamo identificarci con i nostri pensieri come se fossero verità. I pensieri non sono fatti. Produciamo pensieri esattamente come produciamo movimenti ma non siamo né i nostri pensieri né i nostri movimenti: siamo molto di più di questi attimi.
Tre esercizi per non solidificare
A volte abbiamo bisogno di fare qualcosa di immediato per interrompere la proliferazione mentale. Ci sono tre classici esercizi che possiamo fare.
- Il primo è contare i pensieri. Appena ci rendiamo conto che stiamo pensando trasformiamo quel pensiero in un numero progressivo. Potrebbe non essere semplice se abbiamo tantissimi pensieri eppure funziona per liberare la mente. Ci rendiamo conto di quanti vagoni ha il nostro treno e questo rende il traffico meno caotico.
- Il secondo è cercare cosa ha prodotto quel pensiero. Andare a cercare l’interruttore. Potrebbe essere una sensazione fisica o un’emozione. La riconosciamo e la nominiamo e poi torniamo ad ancorarci alle sensazioni del corpo e della mente. Usiamo due detti per ricordarci questo processo. “Sentire guarisce” (Feeling heals) e Nominare addomestica (Naming is taming). Niente difficile ricerca di significati. Rimanere leggeri, con la leggerezza dell’uccello che vola e non della piuma che è trasportata dal vento.
- Riconoscere la reazione è il terzo sistema. Ogni pensiero attiva uno schema reattivo. Riconoscere cosa produce nelle sensazioni fisiche ed emotive ci permette di capire “cosa connette i vagoni”, ossia cosa potremmo pensare dopo.
Il quarto sistema l’ho citato spesso: è nominare la categoria a cui appartengono i nostri pensieri (Pensieri sul passato o sul futuro, dialoghi, pensieri di fuga, pensieri sul corpo) e poi tornare ad ancorarci al respiro.
Tutto questo a che scopo?
Perché dovrebbe interessarci fare un lavoro simile? Per due ragioni essenziali:
- la prima è osservare. Una delle caratteristiche essenziali dell’osservazione è la disponibilità ad accettare. Quando evitiamo di guardare lo facciamo perchè proviamo avversione: rabbia o paura. Invitarci ad osservare è un modo per guardare le cose senza rimproverare la nostra tendenza alla fuga. Vedremo quanto siamo disposti a vedere. Più pratichiamo e più guardiamo, più sarà facile scoprire che la mente può contenere ogni cosa vera o falsa che sia. Che i nostri pensieri incessanti – che ci sembrano così intelligenti – sono come i ritornelli dei jingle pubblicitari. Molto orecchiabili.
- la seconda ragione è che all’osservazione segue l’apertura, Una capacità più sottile di affinamento dell’attenzione. Una apertura che non riguarda solo il corpo ma anche la mente e il cuore. Un’apertura che comporta il fiorire.
Aprirsi richiede una piena e libera percezione di ciò che è presente e di ciò che è lì nascosto, come pure la piena disponibilità a soffrire e ad accogliere in egual misura il dolore e la gioia del cuore. Joseph Goldstein e Jack Kornfield
Il silenzio e i pensieri ripetitivi
Per fare questo abbiamo bisogno di avere degli spazi in cui riconoscere la possibilità del silenzio. La nostra mente conosce per contrapposizione. Il silenzio ci permette di incontrare il nostro rumore. La lotta, di desiderare la pace. Offrendoci la compagnia del silenzio scopriamo quanto può essere rumorosa la nostra mente ma, nello stesso tempo, le offriamo la possibilità di riposarsi riducendo la quantità e qualità di stimoli a cui la sottoponiamo. A volte sono troppi stimoli e quindi abbiamo bisogno non solo di osservare ma di raggiungere il centro stesso che tiene la mente in movimento e quindi di mollare la presa. È come percorrere un sentiero che, attraverso il vuoto, ci permette di scoprire la nostra interezza.
Entrare nel silenzio, abitarlo senza fretta e senza paura, significa abituare i sensi a discernere: sentire sempre di più e sempre meglio, distinguere le sfumature, cogliere le differenze. Non si tratta di semplice udito ma di un’azione, un atto di volontà e di attenzione intesa come disponibilità a sporgersi ed esporsi, rompere l’abitudine e aprirsi all’imprevisto. Accademia del silenzio Per la Collana Quaderni di meditazione in vendita martedì prossimo – 24 Novembre – in allegato al Corriere della Sera
In questo modo i pensieri diventano bolle di sapone, anziché treni in movimento. Per giungere a questo dobbiamo accettare un paradosso, tanto più stringente per chi, come me, della cura ha fatto una professione: “Insegnaci ad avere cura e a non avere cura”, come dice Tomas Stern Eliot. Oppure insegnaci ad aver cura del silenzio per poter riconoscere il peso delle parole, per poterle conoscere e lasciar andare.
© Nicoletta Cinotti 2022 Il silenzio come cura. Ritiro di meditazione