
“Bambini, fate silenzio!” penso che sia una delle frasi che ricordo di più. Perché, come diceva mia madre “quando i bambini fanno silenzio fanno un guaio” ma “quando sono insieme fanno un baccano incredibile”. In questi giorni mi tornano in mente molte frasi legate all’educazione al silenzio nell’infanzia: come se una delle prime cose fosse regolare il volume dei bambini. In realtà i bambini seguono l’esempio e quindi quando arriviamo a dare troppe indicazioni educative è perchè qualcosa, nel nostro modo di dare l’esempio, non sta funzionando.
Mio padre era il primogenito di cinque figli e per le feste di Natale tutti si riunivano a casa della nonna: tutti con figli, tranne lo zio più giovane, ancora scapolo, che sembrava sempre emergere da qualche misteriosa avventura. Il rumore che facevamo noi bambini era nulla rispetto a quello che facevano loro: a tavola insieme magari dopo un anno, visto che abitavano in luoghi diversi. In realtà quella confusione era il segnale dell’eccitazione, del piacere di stare insieme, delle tante cose da dirsi. Nei giorni successivi il rumore diminuiva, anche quello di noi bambini. E poi, con l’epifania, tornava il silenzio. Per me l’epifania era il ritorno del silenzio, in una casa in cui le parole erano sempre essenziali: si parlava se c’era qualcosa da dire. Con il tempo ho capito che non si parlava perchè ci sarebbe stato troppo da dire.
Cercare il silenzio
Le famiglie sono specializzate nel silenzio carico, pieno di significati non espressi. Non è quello il silenzio salutare, quello che cerchiamo per curarci. Anzi quello è un silenzio pieno di rumore, di suoni e di pensieri interni. Ho capito che ciò che fa rumore davvero è quello che non lasciamo andare.
È quella la nostra fonte personale di rumore interiore: le cose che ripensiamo e ripensiamo perché non riusciamo a lasciarle andare e tornano continuamente alla mente. Ci sono dei pasti in cui, anziché masticare cibo, mastichiamo pensieri.
Cos’è che non lasciamo andare
Essenzialmente non lasciamo andare quello che, invece, dovremmo lasciar andare. Le cose che ci hanno ferito, quelle che hanno avuto una evoluzione diversa da come volevamo. Non lasciandole andare cerchiamo continuamente di modificare il passato che abbiamo avuto. Non è possibile ma non rinunciamo facilmente all’impossibile. Cerchiamo anche di non lasciar andare le cose belle che abbiamo vissuto, cerchiamo di farle durare il più a lungo possibile ed entriamo in ansia per la paura di perderle. Mi sono accorta di essermi innamorata nell’esatto momento in cui ho avuto paura di perdere quella persona. Insomma facciamo una vita da castori: costruiamo dighe per tenere lontana la perdita, per cambiare il corso delle cose e tutto questo produce un suono incessante dentro di noi.
Perché dà tanto fastidio il rumore
Non possiamo sfuggire il suono: anche per le persone sorde i suoni forti sono fastidiosi e provocano disagio. Per la stessa ragione che cerchiamo di fuggire il rumore: il suono, anche se proviene dall’esterno, è percepito dentro. O meglio i suoi effetti sono percepiti dentro e non possiamo facilmente mettere barriera ai suoni. Qualcuno può essere più in grado di isolarsi ma quando percepiamo un suono non lo possiamo scacciare fino a che non cessa.
Più abbiamo rumore dentro di noi, più i suoni esterni ci danno fastidio. E il rumore interno è dato essenzialmente da tre emozioni: la prima è il tentativo o l’impossibilità a lasciar andare, la seconda è la presenza dei sentimenti avversativi. Rabbia e paura suscitano una specie di rumore di sottofondo. La terza fonte di rumore interno è il dubbio, che è una specie di rimuginamento: il mettere sempre alla prova, ipotetica, le scelte che facciamo. Il dubbio di cui parlo non è il discernimento che precede una decisione: è proprio il processo di voler trovare sempre quello che è più giusto, più vero, migliore e che alla fine si traduce con un pensiero incessante.Trovare il silenzio esterno ci aiuta a connetterci con il silenzio interno ma, alla fine, il vero silenzio è quello che incontriamo quando siamo in pace dentro di noi. È lì che inizia la pratica, è lì che inizia il silenzio.
Un bagno nel bosco
In questi giorni ho camminato in boschi fitti, secolari. C’è un haiku che dice “All’ombra del ciliegio nessuno è straniero”. Io direi che sotto gli alberi nessuno è straniero perchè offrono protezione e una qualità di silenzio di cui si fanno custodi. La loro presenza attutisce i suoni del mondo, li filtra. In Giappone c’è una pratica che si chiama Shinrin-Yoku: il bagno nella foresta. Si tratta dell’inspirare l’atmosfera del bosco e viene usata proprio per riportare serenità. Forse è in quel momento, quando possiamo ascoltare il suono splendido, che possiamo avere il vero silenzio: il silenzio che nasce dall’acquietarsi dei rumori interni e dalla pace dei rumori esterni.
La via della parola e la via del silenzio
David Steindl- Rast è un monaco benedettino, di origine austriaca, che vive negli Stati Uniti. Si occupa da sempre di dialogo inter-religioso e dal 1966, in particolare, di dialogo buddista-cristiano, visto che è diventato anche un praticante zen, con il permesso dell’abate del suo monastero. Un permesso saggiamente concesso perchè la sue pagine sono bellissime e sarebbe stato davvero una pena perdere una così grande capacità di integrazione. Sostiene, come da tradizione, che il Cristianesimo è la Via della Parola, mentre il Buddismo è la Via del Silenzio. Questo significa che la ricerca di significato percorre strade diverse ma, dice Fra David, parola e silenzio, alla fine hanno bisogno l’uno dell’altro.
In una conversazione autentica condividiamo qualcosa di più profondo delle parole: permettiamo che il silenzio del cuore entri nel discorso. Un vero dialogo tra amici è uno scambio di silenzi attraverso le parole. David Steindl-Rast
Quello che le unisce è la comprensione, perchè senza comprensione, né la parola né il silenzio hanno significato. I silenzi dopo l’epifania erano pesanti perché incomprensibili e carichi di emozioni che non riuscivo a decifrare. La comprensione però è un processo che arriva nel momento in cui le parole nascono dal silenzio e, una volta comprese, tornano al silenzio, che è la quiete della comprensione.
La comprensione avviene quando l’ascolto delle parole è pronto tanto da condurci agevolmente ad una azione e lasciare libero l’accesso ad un nuovo silenzio. La comprensione avviene quando possiamo fare quello che abbiamo compreso.
Un’esperienza significativa
Spesso definiamo un’esperienza significativa, un incontro importante, con la sensazione che “ci parli“. Ovviamente lo intendiamo in senso ampio. Se facciamo attenzione, di quella sensazione, non fanno parte solo le parole ma anche un senso di spaziosità che restituisce una esperienza di silenzio. Solo che proveniamo dalla Via della Parola e quindi tendiamo a sottolineare l’aspetto verbale, tendiamo a dare più importanza alle risposte che alle domande. Eppure parole e silenzio sono inseparabili ed è il silenzio, molto spesso, che rende ritmo e significato alle parole.
Il sermone senza parole
In apparenza i sermoni possono essere fatti solo di parole ma nella tradizione buddista si narra che in un suo sermone il Buddha teneva in mano un fiore, in silenzio. Solo un discepolo capì cosa voleva dire. Il discepolo sorrise e il Buddha, di rimando sorrise: la loro comprensione condivisa passava attraverso un semplice sorriso.
Ecco quando parola e silenzio sono in armonia, basta un solo sorriso per capirsi. Questa è la cura del silenzio.
© Nicoletta Cinotti ri-editing 2022
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