
Difficile non creare – dentro o fuori di sé – dei nemici. A volte sono persone che hanno fatto qualcosa che a noi è sembrato aggressivo, Altre volte hanno fatto qualcosa di realmente pericoloso, offensivo o ostile. A volte vediamo nemici attorno a noi perchè abbiamo paura. Altre volte perchè siamo arrabbiati. Quello che è certo è che è difficile rispondere ad una persona che consideriamo un nemico e spesso il nostro comportamento rende la situazione ancora peggiore di quello che è.
Molto del dolore che è collegato ai nostri “nemici” è un dolore emotivo che si intensifica a causa della nostra reattività. Ciononostante ci è difficile rinunciare all’arma a doppio taglio della rabbia e, visto che la lotta non si realizza più attraverso combattimenti fisici, passiamo all’uso dell’arma idella competizione per vincere quelli che consideriamo i nostri nemici.
Entrare in competizione
La competizione che viviamo nella nostra vita quotidiana credo che equivalga alle lotte sanguinarie degli uomini primitivi: non utilizziamo più il confronto fisico ma mettiamo in azione la mente e la lotta competitiva per vincere quelli che, momentaneamente, consideriamo i nostri nemici. A volte sono antagonisti professionali, altre volte potenziali amanti dei nostri partner. Altre volte semplicemente persone che hanno qualità che vorremmo avere. La prima a parlare di sindrome da ipercompetitività è stata Karen Horney che con questo termine intendeva definire tutte quelle strategie comportamentali che ci spingono a fare azioni contro qualcuno. Non dobbiamo andare molto lontano per vedere come nasce un avversario e come diventa facilmente un nemico. Basta leggere un quotidiano e scorrere le pagine di politica, economia, cronaca sportiva e cronaca nera. Abbiamo facilmente un riassunto di come sembri indispensabile avere un nemico per definire la propria posizione e di come spesso sia la forza della lotta a questo avversario la misura delle nostre capacità. Visto che siamo più raffinati non colpiamo con le armi ma usiamo parole di svalutazione, giudizi severi e atteggiamenti di superiorità basati sulla cultura, ceto sociale o caratteristiche personali e cerchiamo solidarietà nella nostra lotta, coinvolgendo più persone possibili nella rete di competizione, avversione e, a volte, odio.
La competizione è naturale ed è parte dell’arsenale umano di sopravvivenza ma quando serve per creare dei nemici dobbiamo chiederci che potere le diamo nella nostra vita. Sharon Salzberg, Robert Thurman
Una convinzione nascosta
C’è una convinzione nascosta dietro alla sindrome da iper-competizione. È l’idea che se accade qualcosa di buono ad un’altra persona questo abbia un effetto che diminuisce – per confronto – il nostro valore. Non è così ma i nostri sentimenti di gelosia o invidia ci portano a ragionare così. Anche quando il successo di un altro non è riferito ad un campo in cui siamo direttamente interessati, la nostra competitività può farci sentire perdenti. La pratica di mindfulness invita a coltivare un sentimento di gioia compartecipe attraverso la pratica di Mudita proprio per attraversare le emozioni di invidia e gelosia. Se attraversiamo la vita dalla prospettiva deprivata di ciò che ci manca e che non abbiamo, qualsiasi persona che abbia qualcosa che desideriamo può essere percepita come un competitore e, in fine, addirittura come un nemico. La notizia sorprendente è che la sindrome da iper-competizione non è qualcosa che accade solo con gli estranei: può essere una fonte significativa di conflitto relazionale e può portare un prolungato clima di tensione affettiva.
Scopriamo così che, stranamente, la competizione ha una connessione con l’amore o meglio con una mancanza di amore percepita come qualità di inadeguatezza; lo racconta bene John Welwood parlando del sentimento di non amore
[box] Se il vostro scopo nella coppia è dimostrare in continuazione di esser sempre i più bravi, di guadagnare di più, di controllare la vita di tutti, allora non volete il bene della coppia, tanto meno quello del vostro partner. Nelle coppie che funzionano, si coopera per raggiungere obiettivi comuni mettendo a disposizione le proprie risorse, si sostiene l’altro nel raggiungimento di risultati propri. Caterina Steri[/box]
Co-creare un nemico
La nostra percezione degli altri come nemici non nasce oggi: nasce nella nostra storia. È da piccoli che impariamo la competizione e, soprattutto, che impariamo ad associare la competizione con l’amore.
Essere sorelle è probabilmente la parentela più competitiva all’interno della famiglia, ma una volta che le sorelle sono cresciute, diventa la relazione più forte. Margaret Mead
La frase di Margaret Mead è fiduciosa perchè immagina che, ad un certo punto, la competizione diventi solidarietà Non è sempre così ma è certo che impariamo ad essere competitivi da piccoli perchè la competizione è una componente del nostro atteggiamento verso il gioco. In questo senso è un aspetto salutare della nostra esperienza: da bambini impariamo e sperimentiamo che, giocando con gli altri, a volte perdiamo e a volte vinciamo. Sempre da bambini però impariamo a mettere in relazione la competizione con l’amore: vincere è essere amati, approvati. Ricevere riconoscimento e rinforzo. Perdere è, prima di tutto, una esperienza che associamo alla perdita dell’amore. Impariamo anche che le patatine vanno divise e che, se qualcuno ne ha 10 anche noi ne vorremmo almeno 10. Iniziamo così, se le nostre esperienze non sono elaborate (ho detto elaborate e non positive), a credere che dobbiamo competere per non perdere, per non attraversare una esperienza di deprivazione.
Qual è la differenza tra esperienze elaborate ed esperienze positive? Non vorrei entrare in un campo troppo teorico però – rispetto alla competizione e alle emozioni ad esse collegate – il vero punto è imparare a stare nell’esperienza della perdita e del fallimento. Nell’inevitabile alternanza di vittorie e sconfitte. Non possiamo pensare che avere un’infanzia felice significhi che tutto è andato bene. Avere un’infanzia felice significa avere imparato a perdere e avere imparato che vincere e perdere fanno parte del gioco. Questo ci permetterà di uscire dall’infanzia senza uno schema mentale in cui sentirsi minacciati da qualsiasi persona stia giocando il nostro stesso gioco: che sia un collega, un amico, un partner.
Se volessimo solo essere felici, sarebbe facile. Ma vogliamo essere più felici degli altri, e questo è quasi sempre difficile, perché pensiamo sempre che gli altri siano più felici di quanto sono. Charles Montesquieu
L’ultima cosa che abbiamo voglia di sentirci dire è che siamo noi a co-creare un nemico: eppure è proprio così. Ogni persona è potenzialmente amabile e, anche, capace di ferirci. Non esiste una persona che è solo amabile, né una persona che è solo capace di ferirci. Se pensiamo alle persone che amiamo possiamo riconoscere che in qualche momento ci hanno ferito. La differenza è se, per quella ferita, le abbiamo trasformate in nemici oppure se – per sentirci al sicuro – abbiamo iniziato a fare di tutto per essere migliori di loro. Se ci accorgiamo che questo è quello che abbiamo fatto, è necessario prenderci la responsabilità di aver co-creato un nemico e co-costruito una competizione assurda. E lasciarla andare, anche se volesse dire accettare di perdere, è la cosa migliore che possiamo fare per noi.
Siamo legati a doppia mandata al nostro rivale e anche al nostro nemico
La competizione e la rivalità sono un legame fortissimo. Davvero! Com’è possibile essere lontani da un rivale, da una persona con la quale siamo in competizione? Ogni passo fa lui, ogni passo guardiamo come farlo meglio. Così nella competizione – che sia sportiva o solo personale o professionale – abbiamo un legame molto stretto con il nostro avversario. Un legame stretto che disegna favolose storie e narrazioni sportive. Come dimenticare la rivalità tra squadre della stessa città e il pathos che attiva un derby? Come dimenticare la rivalità tra Federer e Nadal, tra la Kurnikova e la Hingis, Tra Lauda e Hunt. Tra Italia e Germania nel calcio (e non solo).
Il punto però rimane la soglia del gioco. Quando la competizione va oltre questa soglia diventa iper-competizione e diventa la co-creazione di un nemico che ci terrà legato a lui/lei a doppia mandata.
L’Iliade dà a volte l’illusione di essere la giustapposizione di più rivalità elette: ogni eroe trova nel campo avverso il suo nemico designato, mitico, quello che lo tallonerà finché non l’abbia distrutto, e viceversa. Ma questa non è la guerra: è l’amore, con tutto l’orgoglio e l’individualismo che presuppone. Amélie Nothomb
Ama il prossimo tuo come te stesso: ma come?
I vicini sono spesso i “migliori nemici“: abbastanza estranei da permetterci di esprimere ostilità e abbastanza simili da ri-attivare temi legati al rapporto con i fratelli. Hanno una casa come la nostra magari un po’ più grande – o più piccola – più bella o più brutta. Sono perfetti per scatenare la nostra avversione e la nostra competizione. In questo siamo aiutati da una mente che funziona per opposti e che è solita paragonare. Gli stereotipi ci aiutano: ci offrono un modo rapido per categorizzarli, per dire che noi siamo la normalità e loro no. Noi siamo lo standard e loro no. Per uscire da questo circolo vizioso di nuovo la pratica di mindfulness è importante: ci aiuta a praticare la gentilezza amorevole e ci aiuta ad essere consapevoli del fatto che il nostro cuore funziona a cerchi di familiarità. Abbiamo un atteggiamento verso i familiari e un altro atteggiamento verso le persone neutre. Un atteggiamento verso le persone difficili e un altro ancora verso l’umanità in generale. Con questa pratica possiamo ricordarci che generalizzare non serve. Il nostro cuore è vasto ma la generalizzazioni lo chiude anziché aprirlo.
Preferisci avere ragione o essere felice?
Quando ho fatto questa domanda ad una anziana ed energica signora questa mi ha risposto “Se ho ragione sono anche felice!”. Non è così. Il fatto di avere ragione molto spesso è la base per iniziare una lotta. Contro le ingiustizie – ci diciamo – in realtà una lotta perchè la nostra ragione vinca. Cerchiamo di giustificare queste ragioni con argomentazioni razionali e che non tengono conto degli aspetti emotivi del nostro interlocutore e nemmeno dei nostri aspetti emotivi. Vogliamo avere ragione perchè associamo al successo la felicità. Perchè associamo la felicità al potere e alla dominanza. Quello che succede, quando abbiamo imposto la nostra ragione, il nostro punto di vista, è che spesso abbiamo rotto o incrinato il tessuto di una relazione. Anche questa è una forma di iper-competizione. Anche questa fa danno a noi e a chi ci sta intorno. Per paradossale che possa sembrare, più a noi che a chi ci sta intorno.
Dobbiamo essere grati ai nostri nemici perché ci insegnano la pazienza, il coraggio, la determinazione e ci aiutano a sviluppare una mente tranquilla. Dalai Lama
Il Dalai Lama racconta una storia al riguardo. Avevano una vecchia macchina da riparare, che era appartenuta al precedente Dalai Lama. Un suo aiutante non riusciva a farla funzionare. Era un buon meccanico ma dopo giorni e giorni la macchina sembrava non volerne più sapere di viaggiare. L’uomo perse la pazienza e il Dalai Lama lo trovò che batteva la testa ripetutamente contro la macchina. “La macchina non sentirà niente”, gli disse il Dalai Lama e la rabbia ferisce più noi dei nostri nemici. Il fatto di avere un nemico è già abbastanza un guaio, non migliora se rimaniamo intrappolati in questa situazione. A volte le persone sono ostinate più di noi: cerchiamo di avere ragione e ci comportiamo come l’uomo che batteva la testa sulla macchina. Alla fine sentirà male di sicuro e non avrà risolto il problema. Per uscire dal problema abbiamo bisogno entrambi di tornare ad una comunicazione che includa gli aspetti emotivi che nascondiamo dietro il fatto di avere ragione
La migliore strategia di tutte è agire preventivamente, consapevolmente e prima di diventare arrabbiati, per non dare ai nostri nemici l’opportunità di ferirci. Sharon Salzberg Robert Thurman
© Nicoletta Cinotti 2018 Photo by Quino Al on Unsplash
Bibliografia essenziale
Colpisci il tuo cuore, Amelie Nothomb
Preferisci avere ragione o essere felice? Marshall Rosenberg
Love your enemies, Sharon Salzberg e Robert Thurman