
C’è una poesia di Czeslow Milosz che dice ” i fiumi crescono piccoli”. Sembra un apparente paradosso eppure non c’è una frase migliore per descrivere cosa succede nel progredire della pratica. Diventiamo più capaci di cogliere il piccolo: il valore delle piccole cose, il disarmo del nostro narcisismo, la diminuzione del nostro senso di importanza. È una diminuzione che, contemporaneamente, ha la natura della grandezza perchè restituisce la nostra umanità condivisa e le attribuisce un posto. La nostra umanità non ha bisogno di una roboante grandezza: si nutre di semplicità.
Svelare un mistero
La prima cosa che incontriamo, quando iniziamo a praticare, è la nostra distrazione. Un incontro che può essere così doloroso da far dire, ad alcune persone: “Non sono adatta alla meditazione”, tanto è il disagio che incontrare la propria distrazione può comportare.
Abbiamo, forse, un’idea grandiosa delle nostre capacità e incontrare un ostacolo così fastidioso può suscitare un vero sconforto. Eppure la mindfulness si è appena rivelata nella sua grandezza: ci fa imparare incontrando le cose che non vanno. Ci fa vedere il salto tra l’immagine ideale di noi e la realtà: svela un mistero. Ci racconta chi siamo davvero.
La concentrazione
La concentrazione è sia uno strumento che un malinteso. È un malinteso perché pensiamo che sia necessario averla affilata come una lama per poter praticare mentre invece è accorgersi di cosa succede quando tentiamo di portare l’attenzione su un oggetto interno, il vero elemento centrale della concentrazione. Perché è diverso essere concentrati su un oggetto esterno – per esempio il cellulare – oppure su un oggetto interno – per esempio il nostro respiro. La diversità sta nella solitudine: è difficile concentrarsi su un oggetto interno se non tolleriamo la solitudine che è necessaria. Accorgersi di questo inciampo è un grandissimo regalo e non un fallimento.
Questo ci permette di definire meglio cos’è la concentrazione:
- il primo elemento che qualifica la concentrazione è la capacità di dirigere tutta la nostra attenzione su un unico oggetto. Questo fa sì che parti disparate della nostra esperienza convergano rendendo la percezione molto più acuta, da un lato, e intera, globale, dall’altro.
- il secondo elemento è connesso alla chiarezza: la percezione sfuoca i fattori di disturbo e l’oggetto di attenzione diventa via via più chiaro. Chiarezza non necessariamente significa semplicità di comprensione: è piuttosto una precisione gentile, un mettere la migliore parola nel miglior ordine (Ezra Pound dixit). Oppure, come dice Pema Chödrõn è riconoscere l’esperienza con precisione e gentilezza.
- infine il terzo elemento è legato ad un incremento dell’intensità o della densità. Quando compri l’ammorbidente concentrato sai che la piccola quantità può essere diluita per sortire un buon effetto. Questa qualità di concentrazione è spesso prodotta, nella nostra vita, dal disagio. Quando soffriamo o qualcosa va male siamo concentrati su quella difficoltà, spesso a scapito di tutto il resto. In questo caso la concentrazione sorge con una densità di sensazioni fisiche, emotive e pensieri compressi per quanto la forza della nostra mente è capace di comprimere.
Il primo test di realtà sulla nostra pratica quindi non è quanto siamo concentrati ma con quanta gentilezza e precisione sappiamo ricondurre la nostra attenzione, ogni volta che vaga. Con quanta pazienza accettiamo che le cose siano proprio così come sono. Con quanto coraggio affrontiamo la solitudine della concentrazione senza farsi sopraffare dalla disperazione o dalla paura: questa è la misura – piccola, minima ed essenziale – della profondità della nostra pratica.
Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori rigurgitano furia di passioni. W. B. Yeats
Concentrati sul disagio
Quando siamo concentrati sul nostro disagio pratichiamo una particolare forma di concentrazione; una concentrazione che vuole arrivare alla correzione. Se togliamo l’elemento di correzione – e a volte di punizione – sperimentiamo comunque una forma di concentrazione. Se avessimo bisogno di una prova che siamo capaci di concentrazione credo che questa sarebbe quella valida per tutti: iniziamo a lottare con forza contro quel disagio cercando di combatterlo e cambiarlo e non riusciamo a staccare il pensiero da quel luogo.
Qui la mindfulness ci permette di incontrare il secondo test di realtà della nostra pratica: tanto più siamo in grado di esplorare, di far crescere la nostra consapevolezza nei confronti di quello che proviamo nel nostro disagio, tanto più siamo avanzati nella pratica.
In modo un po’ paradossale nel disagio ci viene chiesto di diluire per poter accettare. Se siamo capaci di farlo, di descrivere con parole oneste, precise e gentili la nostra esperienza sappiamo che l’esplorazione è stata profonda, come racconta splendidamente Sharon Olds parlando del dolore per la sua separazione, nel brano sottostante.
© Nicoletta Cinotti 2020 Parole che si poggiano sul cuore
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Ora sono giunta a guardare l’amore
con occhi diversi, ora che non sto
più nella sua luce. Voglio chiedere
al mio quasi ex-marito come ci si sente
a non amare, ma lui non vuole parlare di questo,
vuole che alla fine di tutto ci sia placidità.
E qualche volta sento come se già
fossi assente – nella visuale dei suoi ultimi trent’anni,
assente nella visuale dell’amore,
mi sento invisibile
come un neurone in una camera a nebbia, seppellita
in un acceleratore di particelle lungo un miglio,
dove ogni cosa che non può essere vista
si desume da quello che è identificabile.
Dopo il trillo della sveglia
lo accarezzo, ed è come se la mia mano cantasse
insieme a lui, come se fosse
la sua pelle che canta, in tutte le estensione musicali,
tenore della vertebra più alta,
baritono, basso, contrabbasso.
Voglio chiedergli, adesso
com’era prima, quando mi amavi – cosa vedevi in me
quando mi guardavi? Sharon Olds tradotta da Daniela Raimondi