
Arriviamo nel mondo con un bagaglio leggero: poche emozioni – quelle fondamentali – e una disponibilità ad essere aperti e ricettivi, che è, già alla nascita, diversa per ognuno di noi. Poi ogni giorno ci esercitiamo. Impariamo così, attraverso la ripetizione quotidiana, a vivere. Impariamo piano piano anche a riconoscere le nostre emozioni che all’inizio sono poche perchè bisogna sempre partire dalla semplicità.
Solo che ogni storia ha un ospite inatteso. Anche la storia della nostra vita emotiva ce l’ha. E l’ospite inatteso sono le emozioni delle persone che si occupano di noi. Non sono emozioni nostre ma siccome siamo piccoli e molto ricettivi quelle emozioni ci entrano dentro. Le assorbiamo come fanno le spugne: apparentemente la forma rimane uguale ma il peso, quando sono piene d’acqua, cambia. Così è anche per noi. Assorbiamo le emozioni dei nostri genitori: rimaniamo apparentemente uguali ma queste emozioni ci rendono più pesanti perché sono, per buona parte, incomprensibili.
Non so se avete mai osservato un bambino che ha un genitore ansioso. Sembra che i suoi occhi ti chiedano spiegazioni a domande che nemmeno lui riesce a farsi. E, forse, l’unica domanda è sempre la stessa: “Perché?“.
Le emozioni dei nostri genitori, le emozioni che assorbiamo da loro, fanno un percorso diverso rispetto alle altre emozioni: diventano velocemente parte del nostro carattere e danno forma alle nostre risposte. Non sono nostre eppure ci definiscono. A volte ci definiscono piuttosto male perchè coprono quella che sarebbe la nostra personale propensione verso la vita.
Sono emozioni più statiche, proprio perché diventano parte del carattere, e più difficili da trasformare perché anziché riconoscerle come estranee ci sembra che facciano parte di noi dalla notte dei tempi. E in effetti spesso è così: è nel buio della notte che vengono a disturbarci.
Hanno bisogno di una cura diversa: la cura della differenza. Non sono emozioni digeribili ma solo confortabili. È lì, in quel luogo intimo, profondo e umido di noi, possono arrivare solo le emozioni tenere e leggere come la compassione. Non è la ragione che cura in quel luogo. Non è la nostra capacità di capire. È la nostra capacità di confortare il nostro smarrimento bambino – quello che rimane anche quando abbiamo cento anni – che può curarci. Alla fine la vera riparazione è quella che nasce dalla compassione. Se i nostri genitori avessero avuto compassione di noi forse non avrebbero riversato le loro emozioni nel nostro vaso vuoto e aperto. Ma non avevano compassione di sé stessi e non potevano averla di noi.
Così con la compassione torniamo all’inizio e scrostiamo dalla nostra anima le conchiglie delle loro emozioni. Quelle piccole cozze nere che hanno reso il nostro cammino più difficile.
La compassione è a volte la capacità fatale di sentire com’è vivere dentro la pelle di qualcun altro; è la consapevolezza che non ci può mai essere alcuna pace e gioia per me finché non ci sarà finalmente pace e gioia anche per te. Frederick Buechner, Scrittore e teologo americano
Pratica di mindfulness: Self compassion breathing
© Nicoletta Cinotti 2019 Verso la self compassion ovvero come imparare a volersi bene. Ritiro di Primavera
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