
Non so se succede a tutti ma quando mi fanno un complimento ho una reazione paradossale. Molto spesso la prima azione è ridimensionarlo. Dopo di ché sposto l’attenzione sull’altro, sulla sua gentilezza e, se sono abbastanza pronta, su qualche sua qualità sicuramente molto migliore di quello che si potrebbe pensare. Tratto i compimenti come se fossero delle patate bollenti: oggetti ustionanti da cui sarebbe bene liberarsi in fretta.
I complimenti sono indisciplinati, arrivano a caso. Ti sorprendono, imbarazzano. Non sai mai dove metterli. A volte vorrei metterli in un cassetto e tirarli fuori alla bisogna, quando mi sento giù. Quando Radio autocritica trasmette una delle sue trasmissioni preferite. La mia è “Non hai fatto tutto quello che potevi” seguito dal consueto tadadadaa, un po’ grave e profondo. Si può fallire ma bisogna essere sicuri di aver fatto tutto il possibile, dice la mia voce interiore. Il guaio è trovare il confine del “hai fatto tutto quello che potevi fare”. Ecco quello è il complimento che mi salva. Quando qualcuno mi dice: “Stai tranquilla, hai fatto tutto quello che potevi fare”. In realtà chi soffre di autocritica tollera male i complimenti perchè sono l’altra faccia della stessa medaglia: quella del giudizio. Sono una specie di minaccia: un po’ comicamente viene subito paura di non essere all’altezza di quel complimento. Chi ha un’immagine grandiosa di sé invece li ritiene dovuti, se li prende tutti e li porta a casa, mentre noi, vittime dell’understatement, ci domandiamo se abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare.
In questi giorni ho corretto – per l’ennesima volta – le bozze di un libro che dovrebbe uscire ad Ottobre. Quando le ho viste arrivare ho pensato “mamma mia non ho fatto tutto quello che potevo fare!” Mentre altri annunciano con gaudio e tripudio che hanno scritto un libro, io lo dico sommessa. Perché solo dirlo mi fa tremare lo sterno di quel dolore che riconosco essere un segno di imbarazzo. Perché gioia e dolore, lode e biasimo, guadagno e perdita sono due facce che si alternano ma la medaglia è la stessa: è la medaglia delle vicissitudini umane, che ci sembrano sempre molto personali e, invece, riguardano tutti.
Così stamattina, quando all’alba ho spedito la versione corretta e ci ho scritto DEF. (definitiva), mi sono fatta un complimento e mi sono detta: “Hai fatto abbastanza. Va bene così. Il meglio deve ancora venire.” Perché alla fine bisogna mettere un punto e accettare quello che viene dopo. Se siamo preda dell’approvazione e disapprovazione non riusciamo a mettere nessun punto perché temiamo di venir criticati o di venir lodati da chi non apprezziamo.
La timidezza è qualcosa che condivido con una buona parte di mondo. L’incertezza sulle proprie capacità la condivido con un’altra fetta di mondo. La determinazione ad andare avanti quella la condivido con mia madre: è la sua eredità. E con tante altre donne che si tormentano e non mollano. Sono donne che mettono un punto e poi vanno avanti. Stamattina leggevo che il Gip Alessandra Vella ha liberato Carola Rackete. Ecco – mi sono detta – quelle due, sono certa, sono piene di domande. Si chiedono se hanno fatto abbastanza, se hanno fatto giusto. Hanno studiato tanto e poi sono uscite con la loro posizione scomoda, per la quale verranno criticate e attaccate. Hanno messo un punto, molto visibile, che ha spinto gli altri a farsi delle domande. Ma io sono sicura che hanno fatto tutto quello che potevano fare al meglio delle condizioni in cui si sono trovate. Che non è la Verità assoluta, la Giustizia assoluta ma quella relativa alla vita che abbiamo nel momento in cui ci siamo trovate a scegliere. La determinazione non è un’eredità di mia mamma: è un’eredità di tutti.
Bisogna pur metterlo, il punto. Alla fine di una frase. Alla fine di una storia. Si chiama ortografia. O, più comunemente, coraggio. Citazione da Twitter
Pratica del giorno: La classe del mattino
© Nicoletta Cinotti 2019 Vulnerabili guerrieri
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