
Tornata. Non so dire esattamente da dove sono tornata. Superficialmente si potrebbe dire che sono tornata dal ritiro di Reparenting, la strada che credevo sarebbe stata in salita e invece è stata morbida e sconfinata come le colline toscane. Però non lo so da dove sono tornata esattamente. Sono tornata da un luogo dove la pratica è stata calda e affettuosa, le persone vicine e allegre, il cuore contento, pieno di regali inaspettati. Sei stanca? mi ha chiesto mio marito quando sono arrivata con la macchina carica di panchetti da meditazione e un insieme di oggetti inconsulti che mi porto dietro come se servissero a qualcosa. No, gli ho risposto, sono felice. Era vero: la stanchezza è un’altra cosa, mette pesi, mette aggravi. Qui ne ho tolto qualcuno. Non sapevo e adesso so che era possibile farlo. Ho capito che la ricucitura, quel lavoro di fino che rimette insieme le parti separate è possibile, semplice, meno doloroso e piangente e più luminoso e sorridente di quello che avrei pensato. Ecco, mi sono detta, quello è tornare a casa: ricucire. Non lo puoi fare se non sei a casa. Poi esci, vai in giro e ti senti bene, semplicemente intera. Poi ti si strappa di nuovo qualcosa e allora torni e così via ma ogni cucitura non è un rammento ma un ricamo che ti rende più viva. Non più bella, più perfetta, più vincente. No, ti rende più viva e semplicemente te stessa. Senza bisogno di aggiungere nient’altro.
Ecco, ho capito che una parte della stanchezza della vita viene dal fatto che aggiungiamo: aggiungiamo titoli, formazioni, studi, impegni e quando poi abbiamo tutto questo, ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di molto, molto meno. Abbiamo bisogno di essere solo noi stessi e che i pesi li abbiamo messi noi aggiungendo ma se iniziamo a togliere, tutto è molto più semplice. Così ho capito che c’è un modo lieve di fare le cose: senza interferire e senza aggiungere. Cucinare con gli ingredienti che sono in frigo, cambiare le ricette, cogliere la bellezza in quello che c’è e non rimpiangere quello che manca e scovare qualcosa che avevi dimenticato in un cassetto. Trovare la strada che nessuno ti aveva indicato, perché quella strada possiamo trovarla solo noi.
Ecco le nostre parti perdute sono cose che avevi dimenticato in un cassetto – il cassetto delle cose inutili – chiavi di case che non hai più, pile esauste che aspettano la differenziata, un fermacapelli di quando li avevi lunghi (più o meno trent’anni fa) e che sei ancora indecisa se buttare via, un braccialetto che hai cercato per tanto tempo e che si è un po’ arrugginito. In quel cassetto ci stanno anche le cose perdute di noi, le buttiamo lì perché fino a quel momento non possiamo sopportarle o tenerle vicine. Poi qualcosa nella nostra vita ci fa rovesciare il cassetto e ti accorgi che era proprio quella parte lì, quella che ti mancava, e che ordine e disordine, pieno e vuoto, conoscenza e ignoranza hanno senso solo fino a che sono in dialogo. Se precipiti in una sola delle due parti diventi stanco morto. Soprattutto se precipiti nella parte perfetta diventi stanco morto. Stare in bilico, stare in dialogo, è felicità leggera.
E possa la poesia essere per voi
proprio quel numero telefonico nell’universo
che stavate cercando, e possa essere
per voi la chiave smarrita
del vostro più grande bisogno.
Quel giorno,
leggerete. Mohja Kahf
Pratica di mindfulness: Le parti esiliate
© Nicoletta Cinotti 2021 Ricucire strappi