
Non sono tanto casalinga: mi piace uscire, muovermi, andare. Come molti di noi, fino a poche settimane fa rientravo a casa spesso poco prima dell’ora in cui sarei andata a dormire. Direi che passavo da casa per dormire e tutto il resto della mia vita si svolgeva fuori. Questo rimanere a casa all’inizio è stato un sollievo: non mi ero accorta che avevo un bisogno fisico di stare a casa, di gustarmi la casa e di appoggiarmi sulla mia vita in modo più intimo e stabile.
Ho iniziato a fare piccoli cambiamenti, spostare oggetti, rendere gli spazi più confortevoli e vari, sistemare l’orlo delle tende che aspettava due punti ( a mano) da un sacco di tempo. Questo è un po’ quello che succede con la pratica di mindfulness. All’inizio, se superiamo la difficoltà dell’immobilità, e la nostra voglia di scappare nel sonno o nel movimento, iniziamo ad accorgerci che avevamo proprio bisogno di tornare a casa in noi stessi, di prendere dimora nel vero senso della parola. Ci sentiamo come naufraghi che finalmente hanno trovato un approdo, viaggiatori che finalmente hanno trovato una casa.
Dopo il riposo e il sollievo dei primi momenti incominci a vedere che ci sarebbe da fare qualcosa: piccole riparazioni, piccoli interventi. Qualcosa alla tua portata potresti farlo da subito e lo fai. Ma ben presto ti sembra che ci siano altre cose che non puoi fare da solo: cambiamenti più importanti che in questo momento ti sembrano urgenti semplicemente perché li vedi. Qui inizia un’altra fase nello stare a casa. Un’altra fase nella pratica di mindfulness. Guardi com’è stare nelle cose a prescindere dalle circostanze. Guardi cosa succede a rimanere ferma, immobile senza nessuna ristrutturazione in atto o in progetto. Solo dopo ti accorgi che molte di quelle cose che avresti fatto erano perfettamente inutili: la quarantena non ti permette di fare tutto quello che vuoi. E la pratica ti invita ad esplorare prima di passare all’azione. Scopri così che molti sforzi sono un esercizio di controllo sulla vita. Un atto di affermata proprietà di cui non c’è davvero bisogno. E rimani di nuovo lì, a casa, a prescindere dalle circostanze, nel passaggio tra la fase 1 e la fase 2.
La fase due nella pratica è quando suona la campana. Termina la pratica. In quel momento puoi balzare giù dal cuscino, stropicciarti gli occhi che hanno guardato dentro e visto panorami impensabili fino a poco tempo prima, e fare tutto come se niente fosse. Come se dentro e fuori fossero due mondi separati. Oppure puoi portare qualcosa di quello che c’è stato dentro, di quello che ha disegnato il tuo tornare a casa e farlo diventare un modo per guardare diversamente anche le cose fuori. Puoi accorgerti che la pratica inizia davvero in quel momento, nel momento in cui non cambi la tua vita ma cambi il modo di stare dentro alla tua vita così com’è e porti fuori qualcosa di quello che hai visto dentro. Portiamo dentro già molto di quello che abbiamo visto fuori. Perché quindi non lasciare che l’intimità che abbiamo vissuto trapeli fuori? Perché non permettere che quello che l’intimità ci ha insegnato trasformi la nostra vita in una lunga esperienza di pratica? Qualcosa da cui imparare in ogni momento. In questo modo non avremmo più così tanto bisogno di cambiare il mondo esterno e permetteremmo che ciò che accade ci trasformi con la gentilezza e la precisione dell’acqua. Con la gentilezza e la precisione dell’amore.
La spinta verso il perfezionismo ha molta attrattiva eppure è una strada improduttiva. Il vero sabotaggio che facciamo a noi stessi e alla nostra creatività sta nella richiesta di fare qualcosa di perfetto e compiuto. Il vero sabotaggio è nascosto nella richiesta – implicita – di non fare errori. Di fare qualcosa che susciti ammirazione. Nicoletta Cinotti in Scrivere la mente
Pratica di mindfulness: La pratica informale
© Nicoletta Cinotti 2020 Pratiche informali di ordinaria felicità (Segui la serie di video ogni giorno alle 13 su FB)
jonny-caspari-KuudDjBHIlA-unsplash