
L’attenzione infatti è spesso associata alla correzione e al pericolo: diventiamo attenti quando qualcosa non funziona e iniziamo a fare quello che possiamo per aggiustare quello che non va. La frase “stai attento” è quasi un riff della nostra infanzia a cui seguiva molto spesso anche la corretta modalità di comportamento. Ma non è questo il tipo di attenzione che ci invita ad avere la pratica di mindfulness. La pratica è caratterizzata da un’attenzione affettuosa che risveglia le emozioni del sistema affiliativo: la tenerezza, la gioia, la gratitudine, la compassione e la self compassion. Emozioni che sono lontane dalla preoccupazione e vicine alla premura. Se la preoccupazione anticipa i possibili problemi, la premura è invece caratterizzata da un movimento interiore sollecito e gentile, caratterizzato dalla disponibilità al contatto. C’è premura nell’abbraccio di un genitore affettuoso, di un amante appassionato, di un amico generoso. Quella premura apre alla conoscenza intima dove la preoccupazione ci conduce alla difesa da un possibile pericolo.
Dall’attenzione preoccupata all’attenzione affettuosa
Così possiamo renderci conto che proprio perché la pratica è una declinazione della cura risente della maniera implicita con cui siamo abituati a prenderci cura di noi. Oscilliamo, inevitabilmente tra premura e preoccupazione, tra distrazione e presenza, tra mindlessness e mindfulness. Una oscillazione che ci mette alternativamente nei panni del genitore affettuoso e in quelli del genitore esigente quando non addirittura punitivo. Ma come possiamo diventare consapevoli di questa oscillazione e, soprattutto, come possiamo orientare la nostra pratica verso un re-parenting, una cura fatta di attenzione affettuosa?
C’è una poesia di Jack Gilbert che può aiutarci a trovare una risposta
Momenti salienti e interstizi
Pensiamo alle nostre vite ricordando soprattutto
l’eccezionale e i dolori. Il matrimonio lo ricordiamo
come i figli, le vacanze e le emergenze. Le parti meno comuni.
Ma il meglio è spesso quando non succede niente.
Come quando una madre prende in braccio la bambina
senza accorgersi e la porta attraverso Waller Street
mentre parla con l’altra donna. E se potesse
conservare tutto ciò? Le nostre vite accadono
negli intervalli tra cose memorabili. Io ho perso
duemila prime colazioni abituali con Michiko.
Ciò che più mi manca di lei è quella cosa
del tutto quotidiana che non riesco più a ricordare. Jack Gilbert
La poesia ci offre una risposta: è quello che succede negli interstizi della nostra vita, quello che rimane dimenticato perché non viene colto dalla presenza, rimane non percepito perché sotto il dominio del pilota automatico, sono questi i momenti che siamo invitati ad abitare e che possono restituirci un significato più ampio dello scorrere del tempo fatto non solo di cronologia ma anche di intensità. Questo potrebbe essere il primo elemento di comprensione del nostro modo di essere presenti e di prenderci cura, il primo elemento di comprensione della nostra capacità di reparenting: dare valore alle piccole cose, sottrarle con la presenza alla distrazione quotidiana. Un buon genitore non è presente solo nell’eccezionale. È la sua qualità di presenza nel quotidiano che lo rende “un buon genitore”.
Davvero i pensieri ci distraggono?
Quando meditiamo siamo abituati a considerare i nostri pensieri come fonti di distrazione per la loro capacità di portarci lontani dall’esperienza. Se ci permettiamo di esplorarli rimanendo presenti possiamo accorgerci che esprimono parti della nostra sfaccettata personalità. Possono esprimere la nostra ambivalenza o i nostri dubbi. Che cosa facciamo con questi “distrattori” ci dice qualcosa del nostro modo di prendersi cura di noi, qualcosa della nostra abilità di reparenting, qualcosa su come funziona il nostro sistema familiare interno. La profondità della nostra pratica infatti non è data dalla capacità di concentrazione ma dalla presenza con cui accogliamo le nostre deviazioni di rotta e da come, con gentilezza, sappiamo tornare sulla strada di casa.
Tornare a casa
La pratica può farci incontrare anche parti dissociate di noi come racconta uno dei testi suggeriti nel protocollo MBCT . È la storia di un re che aveva tre figli. Il primo era bello ed era molto benvoluto. Al suo ventunesimo compleanno, il padre gli fece costruire un palazzo nel centro della città. Il secondo era intelligente, e anche lui molto benvoluto. Quando compì ventun anni, il padre fece costruire un altro palazzo. Il terzo figlio, che non era né bello né intelligente, era scontroso e non piaceva a nessuno. Quando compì ventun anni, i consiglieri del re dissero: «Nel centro della città non c’è più posto; costruite per vostro figlio un palazzo subito fuori dalla città, ben fortificato. Potete mandare le vostre guardie a proteggerlo dagli attacchi dei briganti che vivono oltre le mura della città». Fu così che il re fece edificare il palazzo e mandò un manipolo di soldati a presidiarlo. L’anno successivo, il figlio inviò un messaggio al re: «Non posso vivere qui. I briganti sono troppo forti». Allora i consiglieri gli dissero: «Costruite un palazzo, più grande e più solido, a venti miglia dalla città e dai briganti. Con più soldati, e fatelo solido abbastanza da resistere agli attacchi delle tribù nomadi di passaggio». Fu così che il re li ascoltò: fece costruire il palazzo e mandò cento soldati a presidiarlo. Dopo un anno arrivò un altro messaggio del figlio: «Non posso vivere qui. Le tribù sono troppo forti». Allora i consiglieri del re dissero: «Costruite un castello, un grande castello a cento miglia da qui. Dovrà essere vasto abbastanza da alloggiare cinquecento soldati e abbastanza solido da resistere agli attacchi delle popolazioni che vivono oltre confine». E il re costruì questo castello e mandò cinquecento soldati a proteggerlo. Ma dopo un anno il figlio gli scrisse di nuovo. «Padre, gli attacchi delle popolazioni confinanti sono troppo forti. Ci hanno assaliti due volte, e se lo faranno una terza io temo per la mia vita e quella dei vostri soldati». Allora il re disse ai suoi consiglieri: «Fatelo tornare a casa, vivrà a palazzo con me. È meglio che io impari ad amare mio figlio piuttosto che spendere ogni energia e risorsa del mio regno per tenerlo a distanza».
Chi ha sofferto di disturbi emotivi spesso ha speso molte energie nel tentativo di evitare o respingere ricordi, emozioni o esperienze negative. Lo facciamo attraverso tre modalità prevalenti
Tre modalità prevalenti
Come scopre il re della nostra storia cercare di stare in contatto solo con le parti più efficienti di noi e tenere lontane quelle più dolenti, evitare lo spiacevole e tentare di ridurre al minimo il disagio è uno sforzo notevole, spesso sfiancante e poco remunerativo. Uno sforzo che esprime e realizza le dinamiche del nostro sistema familiare interno e della nostra oscillazione, nel dialogo interiore, tra critica, giudizio e comprensione e compassione
La mindfulness restituisce strumenti di avvicinamento all’esperienza. Oggi sappiamo che quando alimentiamo i comportamenti di allontanamento dall’esperienza non facciamo altro che rinforzare proprio i sintomi che vorremmo curare. Continuare a provare avversione per quello che ci accade e per come rispondiamo a questi eventi non fa altro che rinforzare il nostro disagio. Avvicinarci all’esperienza ci permette di averne, invece, cura, di provare tenerezza e premura.
In che modo possiamo coniugare la pratica di mindfulness con l’esplorazione del nostro sistema familiare interno? In che modo possiamo passare dall’avversione alla premura?
iniziamo ad ascoltare queste parti interne, con interesse e curiosità anche se emergono proprio quando stiamo cercando di diventare dei “grandi meditatori”. Aiutiamo i nostri pazienti a riprendere il dialogo con la loro negatività, ostinazione, a volte addirittura crudeltà e proviamo a scoprire insieme cosa hanno da dirci e qual è il loro vero scopo. Potremmo scoprire che la vera ragione della loro comparsa nel panorama interiore è proteggerci e che lo fanno attraverso la distrazione e il vagare che incontriamo nella consapevolezza aperta.. Solo che, nel tempo, hanno iniziato a farlo in modo esagerato o controproducente.
Tre tipologie di parti nella nostra famiglia interiore
Ci sono le parti esiliate, che sono quelle che influenzano maggiormente il nostro comportamento, i protettori pro-attivi che ci consentono di continuare a funzionare malgrado le nostre parti esiliate e i protettori reattivi che hanno il compito di distrarci dal dolore e dalla consapevolezza delle nostre parti esiliate. Questi due tipi di protezione sono spesso in contrapposizione tra di loro: la prima è costruttiva e moderatrice, la seconda è eccessiva e distraente spesso con modalità molto tossiche. Sono due aspetti centrali del dialogo interiore che meritano attenzione: guardiamoli separatamente:
• Il protettore pro-attivo è focalizzato sul funzionare, sull’imparare, sull’essere preparato e stabile. Cerca di prevenire che le nostri parti esiliate prendano il sopravvento invadendoci con emozioni difficili e lo fanno attraverso una serie di tattiche tra cui la determinazione, l’attività, la critica e, qualche volta, la vergogna.
• Il protettore reattivo ha lo stesso obiettivo del protettore pro-attivo: estinguere e ridurre la percezione del dolore ma si comporta come se fosse un vigile del fuoco che deve sedare un incendio o il guidatore di un ambulanza che deve portare un paziente grave in ospedale. Tende ad essere molto reattivo, con un senso forte di pericolo che, a volte, può essere decisamente sproporzionato. È un protettore che si attiva quando scatta l’emergenza e l’emergenza può essere attivata anche da segnali minimi. Può arrivare ad usare manovre estreme per tenere a bada il dolore come l’alcol, le droghe o l’abuso di antidolorifici. A volte è in aperto conflitto con il protettore pro-attivo e diventa allora necessario trovare il modo di uscire da questa polarizzazione per riportare all’attenzione l’interesse primario: la cura del nostro Sé.
Riconoscere come funziona il nostro sistema familiare interno ci permette di tornare presenti negli interstizi e, soprattutto coltiva il passaggio dall’attenzione preoccupata all’attenzione affettuosa. Un passaggio che restituisce alla nostra pratica il senso di scoperta e meraviglia e alla nostra mente la qualità del principiante
Dice il poeta
Dove sono io ora che ho bisogno di me
dove sono andato tutto a un tratto
sono così solo qui senza me
dimmi ti prego che cosa ho fatto.
Un tempo facevo quasi tutto assieme
passeggiavo mano nella mano
condividevo tutta la mia vita con me
rispondevo ad ogni mio richiamo.
Dimmi che ritornerò domani
terrò le braccia spalancate per me
dimmi che non mi lascerò mai più
il mio posto è qui accanto a me.
Forse mi sono solo perso
come si perde l’ombrello o la chiave
così fino al giorno in cui mi capiterò a tiro
ecco una poesia solo per me.
Roger McGough
da Eclissi quotidiane. Poesie scelte 1967-2002. A cura di Franco Nasi, Edizioni Medusa, 2004
© Nicoletta Cinotti 2021 Mindfulness e self-compassion tra psico-educazione e clinica.