
Ho passato qualche giorno con mia madre. Approfittando della zona arancione e del fatto che mia madre non può stare da sola, senza badante. Non siamo mai andate tanto d’accordo come se suonassimo musiche discordanti. Non per questo non le voglio bene e suppongo che anche lei me ne voglia, anche se qualche volta ho avuto dei dubbi al riguardo.
Domani la devo lasciare. Torna la badante e io finisco le vacanze. E ho uno struggimento a lasciarla che ha un solo nome: tenerezza. Mi ricorda lo struggimento dei primi tempi in cui lasciavo mio figlio all’asilo o lo struggimento dei genitori che lasciavano i bambini al nido.
Ho lavorato in un asilo nido per dieci anni, per pagarmi l’università e perché volevo andar via di casa, essere autonoma per essere libera. Facevamo lunghi periodi di inserimento. Gli inserimenti più facili erano quelli dei lattanti. Era facile imparare a conoscerli, facili da amare. In quel caso il sentimento della separazione era la gelosia dei genitori e la paura che amassero noi più di loro. Non era possibile ovviamente ma avevano ragione: un neonato è una fontanella di amore imprevedibile che conquista anche i più duri di cuore. I neonati hanno un odore di mandorle, talco e latte che dal naso scende direttamente nel cuore. Non esiste neonato che non sia profumato: dev’essere un modo ancestrale per suscitare amore, tenerezza e protezione. Ricordo ancora alcuni di quei neonati, che saranno ormai uomini e donne, e posso sentire l’amore che ho provato per loro con immutata intensità.
Più erano grandi è più era difficile l’inserimento perché i bambini non sanno quanto tempo passa dalla mattina alla sera. In proporzione alla loro piccola vita è davvero tantissimo, come un anno di lontananza. La separazione è difficile e noi eravamo estranei. Dovevamo attraversare la loro disperazione nel saluto, il senso di colpa dei genitori (i genitori si sentono in colpa prestissimo) e il rifiuto nei nostri confronti. Avevamo però degli aiutanti d’eccezione: gli altri bambini. Non è nemmeno immaginabile come i bambini sono in grado di confortare un altro bambino, come sanno distrarlo e coinvolgerlo in un gioco. È una delle cose che più mi fa credere nella nostra naturale bontà. Poi, magari un momento dopo, si mordevano ma rimangono sempre facili al perdono e al conforto.
La tenerezza della separazione
Così domani la saluto. Non mi sento in colpa ma questo non mi solleva perché la tenerezza, quando scende in profondità, incontra la compassione e sente tutto il dolore che si nasconde nella separazione. Forse è per questo che cerchiamo di diventare duri di cuore: la tenerezza è rivoluzionaria. Se vogliamo un regime autoritario degli affetti (o della politica) dobbiamo sradicare la tenerezza. Insieme al sorriso possono cambiare le sorti di un partito politico o di un Presidente. Nell’incertezza di non sapere quando potrò tornare, se torneremo ad essere due che vivono in due regioni rosse, sento quanto mi rivoluziono con queste emozioni. Anche se io non sono interessata a quasi nulla di quello che interessa lei e viceversa. Anche se non siamo state affatto un modello di relazione madre figlia. Anche se a volte le telefono per dovere e non per piacere (per me il telefono andrebbe usato come l’antibiotico: solo se strettamente necessario). C’è qualcosa che illumina il nostro saluto: sapere che ci si vuole bene anche da diverse. Mi piacerebbe che anche la politica – che spesso è solo un programma di lotta contro – si chiedesse se c’è una politica della tenerezza, se c’è una politica di rispetto della diversità attraverso la tenerezza.
Ringrazio la sua vecchiaia: la ringrazio perchè mi ha restituito la tenerezza che ci mancava e insieme alla tenerezza la preziosità di ogni istante della nostra unica e selvaggia vita. Ringrazio il nostro Presidente della Repubblica, ringrazio il vecchio Presidente Pertini: siamo sicuri che siano davvero vecchi?
Ringrazio la vecchiaia di mia madre perché, indebolendola, l’ha resa raggiungibile anche da me, così lenta e lei così veloce. Anche da me così teorica e lei così pratica. La vecchiaia ha regalato ad entrambe qualcosa. Spero che anche la mia vecchiaia sarà così generosa con gli altri.
I vecchi sono degli esseri umani? A giudicare dal modo con cui sono trattati nella nostra società, è lecito dubitarne. Per questa società, essi non hanno le stesse esigenze e gli stessi diritti degli altri membri della collettività: a loro si rifiuta anche il minimo necessario. Per tranquillizzare la coscienza della collettività, gli ideologi hanno forgiato miti, del resto contraddittori, che incitano l’adulto a vedere nell’anziano non un suo simile, ma un “altro”: il saggio venerabile che domina dall’alto il mondo terrestre, o il vecchio folle stravagante e vanesio. Che lo si ponga al di sopra o al di sotto della nostra specie, resterà in ogni caso un esiliato. Ma piuttosto di travisare la realtà, si preferisce ignorarla radicalmente: la vecchiaia resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito. Simone de Beauvoir
La vulnerabilità conduce alla tenerezza
Cos’è che ci ha fatto avvicinare se non la vulnerabilità che lei ha finalmente mostrato e non esibito? Mia madre mi ha allevato con i racconti della guerra. Racconti in cui lei era vittima di lutti e perdite inimmaginabili per una bambina. Ma quei racconti mi suscitavano orrore e non mi avvicinavano: era come se mi imponesse di provare compassione: è diverso mostrare la vulnerabilità o esibirla. Spesso i nostri racconti di dolore, trauma, frustrazione esibiscono la ferita, la mettono in evidenza e puntano i riflettori dell’attenzione di chi ascolta dicendo “prova compassione per questo e per quest’altro”. Ma chi racconta intanto è lontano da sé stesso e da quel dolore: se n’è distaccato magari per sopravvivere. Non si può dare una direzione alla compassione: è un sentimento che sorge spontaneo quando vediamo la vulnerabilità dell’altro e quella vulnerabilità fa memoria dentro di noi di altre nostre vulnerabilità. Quando le persone mi raccontano il loro dolore come se fosse una medaglia al valore che dovrebbe portare immediato rispetto mi dispiaccio perchè mi rendo conto che sono estranei a sé stessi. È quando ci mostriamo nella nostra vulnerabilità che possiamo ricevere conforto, non quando lo esibiamo. I bambini non confortavano gli altri bambini perché glielo spiegavamo. Era un moto spontaneo: capivano cosa succedeva e sapevano cosa avrebbe funzionato per loro. Chi piangeva non esibiva il dolore della separazione: era quel dolore.
Tenerezza – ecco un’altra parola che non sentiamo tanto spesso oggigiorno e specialmente in un’occasione pubblica e gioiosa come questa. Pensateci un’attimo: quando è stata l’ultima volta che l’avete usata o l’avete sentita usare? È altrettanto rara quanto l’altra parola anima. Nel racconto di Cechov, Il reparto n°6, c’è un personaggio stupendamente delineato che per quanto ricoverato nel settore dell’ospedale riservato ai malati di mente ha assunto l’abitudine di praticare una particolare specie di tenerezza. “A Mojsèjka piace rendersi utile. Porta l’acqua ai suoi compagni, li copre quando si addormentano; promette a ciascuno di portargli un copeco o di fargli un berretto nuovo; è lui che imbocca con il cucchiaio il suo vicino di sinistra che è paralizzato“.
Anche se la parola tenerezza non è usata esplicitamente, ne sentiamo la presenza nei particolari che ci vengono descritti, persino quando Cechov tenta in seguito di negarla in questo commento sul comportamento di Mojsèjka “Agisce così non per compassione né per qualche considerazione di tipo umanitario, ma per imitazione, inconsapevolmente dominato da Gromov, il suo vicino di destra“. Raymond Carver
Ćechov combina parole e fatti per farci riflettere sull’origine e sulla natura della tenerezza. Da dove viene? Come azione, commuove ancora il cuore, persino quando è un’azione che non cambia le sorti di chi la riceve. Quanto ci hanno toccato le immagini dei sanitari che accarezzavano i malati? Quelle carezze li hanno guariti? Quella mano stretta mentre arrivava l’ultimo respiro non li ha salvati forse dalla solitudine anche se non dalla morte? Tutto questo non viene forse dalla vulnerabilità e non è forse questo l’unico grande merito di questa pandemia? Quei gesti di tenerezza sono rimasti nell’aria anche quando le persone non c’erano più, sono rimasti nel cuore dei medici degli infermieri che li hanno compiuti come gesti che fanno loro compagnia nei momenti peggiori, gesti che aleggiano nei reparti. Non è questo quello che ci ha raccontato il film di Salvadores “Fuori era primavera”? La tenerezza rimane nell’aria.
La vecchiaia ai tempi del Covid
In questo anno essere anziani è stato un rischio. Non solo un rischio per la propria vita ma anche un rischio politico. Qualche incauto li ha definiti poco produttivi ma io conosco persone che hanno perso i propri genitori in questo anno; perderli ha significato anche un problema economico oltre che affettivo. Una parte consistente del nostro welfare bianco è legato al fatto che gli anziani hanno continuato ad essere una fonte di sostegno pratico per le giovani famiglie, offrendo babysitteraggio e anche risorse economiche, grazie alla loro pensione e grazie ai risparmi accumulati in anni in cui risparmiare era ancora possibile, anche se non eri ricco.
Guardiamo l’invecchiamento con paura, studiamo con ipocondria i segni dell’invecchiamento come dice Umberto Galimberti. Ansia, ipocondria e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio degli anni, con ossessioni specifiche: lo specchio, la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, e quanto può dare l’illusione di ridurre la distanza dalla giovinezza. Abbiamo una classe politica giovane dopo anni in cui siamo stai governati da vecchi leoni. Francamente non ho ancora colto appieno il beneficio di questo rinnovamento. Mi sembrano cambiati gli attori ma non i giochi.Perché la saggezza nell’essere giovani non è legata all’età anagrafica e nemmeno la saggezza dell’esser vecchi è legata all’età anagrafica. La saggezza sta nel saper andare nel regno del cuore e lasciar andare gli esercizi di potere che piacciono tanto a chi ha paura di invecchiare.
Ritornar bambini
Le cose che il bambino ama
rimangono nel regno del cuore
fino alla vecchiaia.
La cosa più bella della vita
è che la nostra anima
rimanga ad aleggiare
nei luoghi dove una volta
giocavamo. Kahlil Gibran
© Nicoletta Cinotti 2021