
Abbiamo tutti abbastanza chiaro quanto sia importante arrivare ad una diagnosi. Sicuramente è più chiaro in campo medico che in campo psicologico ma è sempre importante avere una definizione, il più corretta possibile, di quello che accade e dell’area in cui si colloca la problematica, per orientare la cura.
Una volta arrivati alla diagnosi però curanti e pazienti hanno un atteggiamento molto diverso. Per chi ha un problema nasce – una volta chiarita la diagnosi – una ricerca di senso. Perché mi è successo? Come mai proprio a me e come mai proprio ora?
Per chi cura, invece, la ricerca di senso sta nella relazione terapeutica. È lì che cerchiamo il senso di quello che è avvenuto. Non è nella causa ma nel modo migliore di curare il problema sapendo che possiamo darci degli obiettivi ma la cura non è un percorso di problem solving: certi aspetti cambieranno ma altri potrebbero rimanere inalterati. E, anche se è duro dirlo, a volte l’efficacia del trattamento non dipende dalla competenza del professionista ma dalla disponibilità a cambiare della persona.
Perché ti racconto questo? Perché ho ascoltato un podcast di Annamaria Anelli sul tema del fallimento. Sono rimasta colpita da come la malattia – fisica o psichica – possa essere associata al fallimento quando non porta a guarigione. Eppure chiunque faccia una professione di cura sa che il vero fallimento è non riuscire a curare. Non riuscire a guarire è una possibilità che dobbiamo prendere in considerazione ma il vero problema è quando non riusciamo a curare. Cura e guarigione infatti sono due aspetti che devono, necessariamente, essere separati. Se così non fosse non cureremmo gli anziani, i pazienti cronici, i pazienti terminali. Non spenderemmo energie per tutte quelle situazioni in cui non c’è la risoluzione positiva. Invece, fortunatamente, noi curiamo. Curiamo sapendo che, a volte, la cura è l’unica guarigione possibile e che nella qualità della cura passa tutto quello che rende una vita degna di essere vissuta. Passa il tempo, l’attenzione, l’affetto, il piacere. E, infine, nella cura emerge il senso di tutta la nostra vita. Di chi cura e di chi riceve le cure.
La cura è un diritto. La guarigione una possibilità. La malattia, fisica o psichica, non è un fallimento. È una delle alterne vicende della vita: è una possibilità molto probabile ma, come diceva Wilhelm Reich la salute non è l’assenza di malattia. Io direi che la salute è data da come riusciamo a stare nella nostra vita. Sia quando stiamo bene che quando stiamo male. Considerando che bene e male sono elementi di una altalena e la salute non è una linea piatta ma, piuttosto, è una montagna russa.
Si nasce dunque gravati da un compito che altri viventi non hanno: quello di dare forma al proprio tempo, ossia di disegnare di senso i sentieri dell’esistere. Si tratta di imparare ad aver cura dell’esistenza; detto in altre parole di imparare l’arte di esistere, quella sapienza delle cose umane di cui parla Socrate. Luigina Mortari (pdf)
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