
Il coraggio è fatto di tanti ingredienti: a volte si nutre di incoscienza, altre volte di scelta, a volte è eroico e altre volte è modesto e quotidiano come il coraggio dei piccoli atti di cura. Ha sempre in sé una quota di paura, una paura che viene scavalcata accettando di non sapere come andrà a finire.
I ragazzi thailandesi di cui si parla tanto erano entrati nella grotta per fare una prova di coraggio e per uscire dovranno mettercene ancora di più e con loro chi li aiuta a farlo.
Il coraggio – alla fine – ha sempre una radice comune: si chiama appartenenza. Ogni volta che sentiamo di appartenere a qualcosa, a qualcuno, rispondiamo con coraggio. Non c’è motivazione più forte dell’appartenenza per essere coraggiosi perché appartenere moltiplica la nostra forza e divide la nostra paura. Quando scegliamo il coraggio scegliamo sempre di appartenere a qualcosa, a qualcuno, a noi stessi. E il coraggio più grande è quello che ci chiede di appartenere a noi stessi, di rimanerci fedeli e, nello stesso tempo, disponibili a cambiare.
Chiudere gli occhi e aprire l’attenzione al mondo interno è un grande atto di coraggio: non ci offre scuse e nemmeno scorciatoie. È per questo che a volte è tanto difficile farlo. Ci manca il coraggio di rimanere fermi a guardare le cose proprio come sono in quel momento. Eppure se facciamo questo atto di coraggio, dichiariamo la nostra appartenenza a noi stessi e al mondo. Un’appartenenza che ha la ricchezza del tornare a casa. La ricchezza del volersi bene.
Quello che temi di affrontare è la stessa cosa che ha dato vita all’incubo. David Whyte
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© Nicoletta Cinotti 2018 La cura del silenzio