
Ho parlato spesso della paura, sempre in seconda persona, da un punto di vista clinico. Come se io non la provassi. Invece è un sentimento che conosco bene. Conosco la sua morsa e l’attimo di paralisi. Conosco la sensazione di dubbio e di incertezza. Conosco il peso che mette sul cuore e quello che carica sulle spalle.
Alla fine la mia paura è sempre la stessa: è la paura dei timidi. La paura della novità, del non essere in grado, del non essere capace. Non ho paura delle cose che ho già fatto: fatte una volta mi sembra che farle due volte sia possibile. È proprio l’uscire dal consueto che mi spaventa.
A volte arriva la mattina, più spesso bussa alla sera. Quando la giornata è finita: entro nel letto e mi accorgo che il corpo l’ha ancora addosso. Che non l’ho lasciata nei vestiti che mi sono tolta. Loro sono lì, sulla poltrona, leggeri e contenti di aver fatto, anche quel giorno, il loro dovere. Mi hanno coperta, mi hanno protetta. Il corpo invece è come se sentisse di dover affrontare la paura vecchia della notte e del buio. Perchè la notte e il buio sono le paure che ricordo dall’infanzia, quando mi sembrava che la notte mi avrebbe portata via. Mi avrebbe fatta rotolare dal letto nel fitto della vita. In quel momento imploravo di andare nel lettone. Solo la certezza della presenza di qualcuno mi calmava. La mia paura era democratica: alla fine bastava che ci fosse qualcuno. Chi non era importante. Era un dettaglio di fronte alla necessità di combattere il buio.
Così, nella transizione tra la veglia e il sonno faccio il body scan: come una carezza di attenzione per ricordare al corpo che c’è cura, che non finirà perso nel buio. Che tornerà l’alba
La conosco così bene che, con il tempo, ho imparato a non starla a sentire: se la ascoltassi non farei moltissime cose. Eviterei moltissime situazioni. Allora la sento, riconosco come si insinua nelle pieghe del corpo, come aumenta il battito del cuore, come modifica il respiro. E poi faccio come quando ci si tuffa: vado avanti di un passo.
All’inizio mi sembra di cadere nel vuoto e in quel vuoto, che sempre mi trovo ad attraversare, mi dico che sono una pazza, che dovrei starmene al calduccio, nelle mie sicurezze. Che non dovrei osare. Che prima o poi mi succederà qualcosa di terribile. Poi atterro, sono lì, di fronte alla situazione che mi faceva tanta paura. Il mondo non è crollato. Io sono viva. Le cose si possono affrontare e soprattutto quella sensazione di impreparazione agli eventi che si accompagna per me alla paura diventa una specie di conforto. Mi dice che posso imparare. Allora mi sento come i vestiti che appoggio la sera sulla poltrona: soddisfatta di aver fatto l’unica cosa che potevo fare. Soddisfatta di aver osato, di aver provato. Di aver conosciuto l’unica gioia che potevo conoscere: vivere.
Forse la paura più grande è di essere meno di quello che pensiamo di essere mentre, di fatto, siamo molto di più di quello che pensiamo. Jon Kabat Zinn
Pratica di mindfulness: La consapevolezza del corpo
© Nicoletta Cinotti 2018 Il protocollo MBSR
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