Il cambiamento della psicofarmacologia
Gli anni ’50 del novecento hanno visto la nascita della moderna psicofarmacologia, segnata dalla scoperta della cloropromazina, prima sostanza in grado di modificare significativamente i sintomi dei disturbi mentali gravi (le psicosi) e, pochi anni dopo, dei farmaci ad azione antidepressiva; nello stesso periodo venivano anche introdotte le cosiddette benzodiazepine, potenti ansiolitici ed ipnotici (oltre che anticonvulsivanti) molto più sicuri e tollerati dei barbiturici e per questo destinati a diventare tra i farmaci più utilizzati dalla popolazione generale.
Nel giro di un decennio dunque si pongono per la prima volta nella storia della medicina, le basi per una cura realmente efficace dei disturbi psichiatrici.
Le conseguenze del cambiamento
La conseguenza sarà di poter ripensare, nell’ambito dell’evoluzione culturale della società di quegli anni, non solo le modalità e i luoghi di cura della malattia mentale, ma anche il suo stesso significato.
Al di là dell’enorme importanza scientifica e terapeutica di tali scoperte, questi disturbi interessano però, fortunatamente, un numero assai limitato di persone nella popolazione mondiale. Bisognerà attendere gli anni ottanta, quando vengono introdotti farmaci antidepressivi innovativi, perché si verifichi una nuova rivoluzione nel campo della cura farmacologia dei disturbi emotivi: il Prozac acquista allora notorietà mondiale e viene definito come “la pillola della felicità” e si allarga potenzialmente a dismisura il campo di applicazione di queste terapie.
Farmacologia e disturbi depressivi
Va detto che nel frattempo era maturata una nuova attenzione per i disturbi depressivi, diffusa molto al di là del campo specialistico psichiatrico, tradizionalmente più impegnato nello studio della schizofrenia e degli altri disturbi psicotici.
Il termine “depressione” diventa quasi di moda e viene utilizzato comunemente (e spesso a sproposito) come sinonimo di “disagio psichico”. Inoltre si moltiplicano le testimonianze rese ai mass media da personaggi noti al grande pubblico che raccontano la loro esperienza della depressione, contribuendo a liberare almeno in parte il giudizio comune dalla valutazione negativa di ordine morale che spesso la accompagna (mancanza di volontà, pigrizia, debolezza, etc).
La depressione viene invece definita e trattata nella sua dimensione medica, come uno squilibrio neurochimico correggibile con una terapia adeguata.
Il rischio di eccessi e forzature
Ancora una volta, come tante volte avviene quando è rilevante il peso di una posizione ideologica (e a volte strumentalizzata a fini di profitto economico), ecco ripresentarsi il rischio di eccessi e forzature. Diventa egemonico un modello che non restituisce la complessità dell’esperienza umana, complessità che chi ha la responsabilità della prescrizione deve però aver sempre presente anche di fronte, come vedremo, al proliferare di nuove sindromi e conseguentemente di nuove indicazioni per questi farmaci. Qual è allora l’utilizzo razionale di questi medicinali? In quali casi e a che tipi di pazienti possono essere prescritti utilmente? E quali sono i rischi legati al loro consumo? E ancora: quali le alternative terapeutiche o le strategie da associare nella cura dei disturbi emotivi?
A cura di Raffaele Radmann