
Alessandro è un imprenditore cinquantenne con una ossessione molto comune, tra uomini e donne. Alessandro è ossessionato dai suoi risultati. La sua mente gira attorno a tre valutazioni. Su cosa è sopra la media, su cosa è sotto la media e su cosa è nella media dal punto di vista professionale. Ovviamente vorrebbe essere sopra la media su tutto. Se proprio dovesse scegliere preferirebbe essere sotto la media in qualcosa di trascurabile, che nella media. Aborrisce la media come se fosse la morte per lui. Dice che essere nella media è segno di mediocrità mentre essere sotto la media è segno di umanità.
Questo lo porta ad esagerare con regolarità, su quasi tutto. Provo simpatia per lui perché il suo sforzo di essere sempre sopra la media è uno sforzo che accompagna con ironia. Lo sa e ci scherza sopra ma, ciononostante, non riesce a fare a meno di spingersi sempre oltre: un tormento.
Non mi sono accorta subito che il tema fosse questo perché le persone quando arrivano in terapia hanno un’idea abbastanza definita di quello che è il loro problema e ti portano quello. Quasi mai è il vero problema.
Il vero problema
Il problema di Alessandro sembrava essere una dipendenza da lavoro. Lavorava tantissimo stando a metà tra Italia e Gran Bretagna. Era velocissimo, la sua azienda aveva una struttura agile e un fatturato sopra la media con un indice di crescita costante. Conosceva a memoria il bilancio dell’azienda e poteva recitarlo con precisione, e conosceva tutte le persone che ci lavoravano. Poche, diceva con orgoglio, perché quando scegli bene non hai bisogno di avere tante persone. E in testa aveva un piano di sviluppo flessibile. Flessibile era l’altra parola che usavo dentro di me per definirlo. Non aveva tratti di rigidità – come spesso hanno gli overachiever – era un elastico rapido.
Ovviamente non poteva essere sopra la media su tutto e così era abbastanza angustiato dal fatto che la sua famiglia, invece, non era per niente sopra la media nel senso che voleva lui.
La media familiare
Sua moglie spendeva troppo e i suoi figli passavano troppo tempo in cose inutili: il risultato finale non era per niente di quella brillantezza che lui desiderava. E il poco tempo passato in famiglia era tutt’altro che gradevole per tutti. Come soluzione usava con la sua famiglia la stessa tattica che usava con se stesso: spronarsi. Spronarsi fino al limite dell’insulto, per essere onesti. L’imbeccata risolutiva arrivò dal figlio adolescente. Nell’ultimo fine settimana aveva avuto una lite piuttosto intensa con il padre che era culminata con la frase tipica dei figli adolescenti “Ti odio. Io non sono come te, non me ne frega nulla di essere sempre meglio degli altri. Anzi, voglio essere peggio degli altri per farti rabbia”.
Lui si era fermato alla prima parte della frase “Ti odio”. In effetti è una frase che atterra ogni genitore e non bastano dieci secondi per risalire dal tappeto: è KO tecnico alla prima ripresa. Io invece ero rimasta colpita dalla seconda parte della frase che metteva sinteticamente insieme tutte le informazioni che avevo su Alessandro: non era un workaholic, anche se questo era il suo comportamento più evidente. Era una persona ossessionata dalla paura di non essere all’altezza.
La paura di non essere all’altezza
Così lo invitai a fare una lista: anzi tre liste. Cinque cose in cui si sentiva sopra la media (ne scrisse 10). Cinque cose in cui si sentiva sotto la media (ne scrisse venti) e cinque cose in cui si sentiva nella media (ne scrisse cinque).
Lavorammo su ognuna delle cose di quella lista iniziando da quello in cui si sentiva – o si era sentito – sotto la media. Era un quadro completamente diverso di Sandro. Un adolescente brutto e sfigato, senza ragazze e con pochi amici. Il fallimento dell’azienda del padre appena uscito dall’Università. Un fallimento che aveva rischiato di travolgerlo perché il padre lo aveva – si può dire a sua insaputa – coinvolto fiscalmente fino all’osso nelle sue dinamiche economiche. E una grandissima rabbia e voglia di rivalsa.
Sandro lottava contro la paura di essere come suo padre: un distruttore. E, proprio per questo, rischiava di diventarlo. Forse non economicamente ma come genitore.
Il carattere tra genio e follia
Sandro è sicuramente una persona molto dotata. Con una intelligenza davvero brillante – stavo per dire sopra la media – e una flessibilità che lo rende particolarmente capace di trovare soluzioni creative. Ha un corpo sportivo ma leggero e gioca con passione a tennis da quando era ragazzo. Sembra un po’ un ragazzo. Un ragazzo fissato di avere sempre il giocattolo migliore. Dal punto di vista bioenergetico la sua flessibilità parla chiaro: l’unico carattere che ha un elemento spiccato di flessibilità fisica e mentale è il narcisista. Perché è capace di adeguarsi a tutte le circostanze e questo lo rende sempre in grado di “cadere in piedi”. Perché la sua grande paura è cadere: rivivere il senso di sconfitta, vergogna e umiliazione che aveva già conosciuto. Per questo era bravissimo a tennis: non perdeva una palla. Non giocava di forza ma di eleganza.
Voglio essere sicuro
Quello che lo spingeva sempre più avanti era il desiderio di “mettersi a vento”, come diceva in termine velistico. Voleva essere sicuro per se stesso e per la sua famiglia dal punto di vista economico. Non voleva che i suoi figli si trovassero nella situazione che aveva affrontato lui e non voleva ritrovarcisi lui stesso. Non era consapevole che nella sua costante tensione per essere il migliore diventava molto svalutante e iper-competitivo anche in quei contesti dove la competizione non dovrebbe esserci. Convinto che questo servisse a stimolare suo figlio, giocavano a tennis e si batteva con tutto l’impegno possibile, concedendoli pochissime chance di vittoria. Dopo di ché si preoccupava che il figlio non avesse abbastanza grinta: del tutto inconsapevole di schiacciarlo ogni volta con il suo bisogno di essere sopra la media.
Non era una cattiva persona eppure il suo comportamento non era certo quello che potremmo indicare come un comportamento amichevole e paterno
Scrivere una lista
Scrisse su ogni punto di quella lista. E ogni punto divenne una tessera di un puzzle che prendeva una dimensione completamente diversa. Una dimensione umana. Si accorse che viveva offuscato dal bisogno di compensare le 20 cose nelle quali si sentiva sotto la media e quelle in cui si sentiva sopra la media non erano mai percepite come abbastanza sicure, abbastanza solide. Era flessibile perché aveva paura di fare quello che aveva fatto il padre che non avendo saputo rinnovarsi era finito – come diceva lui – per fare la fine dei grandi dinosauri.
Incominciammo a lavorare sulla sua paura di cadere con la bioenergetica e man mano che incontrava la paura di cadere si aprivano scenari di consapevolezza e di libertà sempre maggiori. Quando finimmo di completare le tre liste – un’idea che avevo ripreso da Kristin Neff – incominciò ad accorgersi che nella sua personalità c’erano molte sfaccettature e che – non tanto stranamente – forse il suo modo di gestire l’azienda era diverso da quello di suo padre ma per il resto si assomigliavano molto. Troppo.
La paura di cadere
Nella sua paura di cadere, dal punto di vista fisico, c’erano molte cose. Non si poteva dire che non avesse grounding: il suo senso della realtà era spiccatissimo. Appoggiando la parte dorsale sul cavalletto, per mobilizzare la rabbia e la paura trattenute nelle spalle e nella mandibola e aprire il respiro era emerso che la sua vera “caduta” era la paura di avere bisogno. E di essere umiliato per questa ragione. Il suo tentativo di mettersi al sicuro era il tentativo di non dover mai chiedere niente a nessuno. La sua era una autonomia che non prevedeva riposo ma solo attimi brevi di contatto che finivano per rimanere in superficie. Lowen parla della paura di cadere connessa al rapporto con la madre: cadere nel bisogno come regressione all’infanzia. Non sono sicura che questo fosse il caso di Alessandro: di sicuro scappava da tutto ciò che lo poteva trattenere troppo a lungo e la sua paura di cadere diventava anche un concedere pochissimo tempo all’intimità.
Come definirsi?
Un venerdì è arrivato piuttosto soddisfatto: aveva appena perso a tennis con suo figlio. E non perché l’aveva fatto vincere ma perché era stato più bravo di lui. Iniziò a fare le lodi di suo figlio e gli ricordai le tre liste che avevamo compilato per lui. Gli chiesi di fare la stessa cosa anche per suo figlio. Non ci fu bisogno di arrivare a fare tutte e tre le liste. Si fermò e mi disse: ho capito. Siamo tutti sopra la media in qualcosa e sotto la media in qualcosa d’altro. E nella media per molte altre cose.
È vero, gli risposi ma tu ami tuo figlio per quale di queste caratteristiche? No, lo amo e basta, mi rispose, senza media.
© Nicoletta Cinotti 2019
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Presento questo caso all’interno del progetto di Supervisione clinica per bioenergetici “L’analisi del carattere 2.0”. Il prossimo incontro si terrà a Parma il 19 Gennaio dalle 14.30 alle 18.30
Se sei interessato all’uso terapeutico della scrittura il 12 Gennaio terrò un laboratorio a Milano “Scrivere la mente: gli aggettivi che ci misurano/definiscono”
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