
Ci sono verbi che non vorremmo mai pronunciare. O, soprattutto, non incontrarli nella pratica, nella vita quotidiana. Uno di questi verbi, quasi scandalosi, è rinunciare. Eppure rinunciamo tutti i giorni, silenziosamente, a qualcosa, rinunciamo a riposarci o rinunciamo a comprare. Rinunciamo a fare la dieta o rinunciamo a mangiare. Rinunciamo anche nel momento in cui parliamo: potremmo dire o scegliere di tacere. A volte rinunciamo a dire la verità e a volte rinunciamo a mentire.
Tutto questo però preferiamo farlo in incognito, come se non lo facessimo perché prendersi la responsabilità di dirsi che siamo rinunciando a qualcosa spaventa, come se fossimo bambini che devono raccontarsi che possono avere qualsiasi giocattolo perché la sola idea che qualche giocattolo sia fuori dalla loro portata genera un capriccio di dimensioni epiche.
Cosa ci spaventa nella rinuncia lo sappiamo bene: è l’idea di perdere e noi vorremmo sempre vincere eppure in tanti momenti l’unico modo per “vincere” è rinunciare a qualcosa. Una scelta che si chiama sacrificio – altra parola piuttosto scandalosa – il cui etimo però ci rassicura. Significa rendere sacro. Ecco quando rinunciamo a qualcosa in nome di qualcosa di diverso e altro rendiamo sacra e benedetta la nostra scelta. La rinuncia è – nel Nobile Ottuplice sentiero – il primo passo per un Retto pensiero. In fondo, possiamo anche considerare che se diamo valore a qualcosa, inevitabilmente, rinunciamo a qualcos’altro, senza dover per forza raccontarsi un sacco di giustificazioni. E se non scegliamo noi, sceglierà il vento
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord,
qual’è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato,
qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare
e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto
Erri De Luca – Opera sull’acqua, Einaudi, 2002