E’ ormai ben noto come i disturbi affettivi, che comprendono ansia e depressione nelle diverse varianti cliniche, presentino un trend in continua ascesa nelle società occidentali e, più ancora, nei paesi economicamente emergenti.
L’esperienza depressiva può comportare livelli di sofferenza a volte intollerabili; per di più, per la sua elevata frequenza e la non rara tendenza alla cronicizzazione, si caratterizza per un alto costo sociale, derivante dalle spese sostenute per i trattamenti da parte del sistema sanitario cui si somma la perdita di produttività che colpisce le persone affette. Considerando tali parametri, negli anni ’90 la depressione si trovava al quarto posto fra tutte le malattie per “carico assistenziale” e fra venti anni si prevede raggiungerà addirittura il secondo posto. E’ intuitivo come tutto questo mantenga viva l’attenzione dei clinici e degli esperti di politiche sociali e sanitarie.
Ma quali sono i fattori di rischio associati alla depressione e con quali strategie può essere affrontata? Trattandosi di situazioni complesse, nella cui genesi è riconosciuta la compartecipazione di diverse dimensioni (assetti neurofisiologici geneticamente vulnerabili, eventi ambientali e relazionali, etc), c’è ampio accordo sull’esigenza di adottare un approccio multidisciplinare, che tenga conto dei contributi delle neuroscienze, della psicologia ma anche dell’analisi dei cambiamenti sociali e persino della statistica: qualche risposta si può ricercare infatti anche negli studi condotti sulla popolazione generale che permettono di individuare, con metodi matematici, le correlazioni significative tra le variabili analizzate.
In Italia solo di recente è stato realizzato, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità, il primo studio epidemiologico rappresentativo della popolazione generale per investigare la frequenza di questi disturbi ed i fattori socio demografici associati.
Ecco alcuni dei risultati: circa l’11% delle persone intervistate ha sofferto nella vita di un disturbo affettivo o d’ansia; è emersa una correlazione significativa con situazioni di disoccupazione e di separazione coniugale oltre che di disabilità fisica, mentre non sono apparsi rilevanti area geografica di residenza e livello di scolarità.
In confronto agli altri paesi (Belgio, Francia, Germania e Olanda), Italia e Spagna mostrano tassi di disturbi affettivi nettamente inferiori: ciò potrebbe far ipotizzare un ruolo “protettivo” correlato allo stile di vita e delle relazioni nei paesi di cultura latina.
Di fronte ad un disturbo con una patogenesi complessa, multifattoriale, alla base del quale sta l’incrociarsi di fattori stress e di vulnerabilità, particolarmente per le esperienze di perdita, limitarsi alla sola cura farmacologica può spesso costituire una risposta insufficiente.
In accordo con questa visione, anche le attuali linee guida sul trattamento della depressione propongono di considerare sempre gli interventi psicoterapici e di supporto, talvolta in alternativa ai farmaci, come per la depressione lieve, o in associazione ad essi, nelle forme moderate o gravi.
La scelta del tipo di psicoterapia dovrà avvenire, come per quella farmacologica, dopo un’attenta valutazione delle risorse individuali (e, non dimentichiamolo, anche delle preferenze personali!), con l’obiettivo di fornire una cura che sia realmente “tagliata” sulle esigenze del singolo paziente.
A cura di Raffaele Radmann