
In questi giorni sono tornata spesso, dentro di me, sul tema del confine. Qual è il confine della stanchezza e quello della pazienza, il confine delle possibilità e quello dell’impossibilità? Il confine tra ciò che possiamo e ciò che non possiamo fare? Spesso mi accorgo di quanto questo confine sia mobile. Inizio pensando di fermarmi ad un certo punto e poi mi ritrovo molto oltre a dove avevo pensato di sostare. Spesso l’affetto che provo per l’altro mi spinge oltre il mio confine. L’empatia nei suoi confronti diventa una voce più forte del mio confine e io divento una dogana sempre aperta.
Così quando invece sento sorgere impazienza di fronte ad una impazienza, estraneità di fronte ad una estraneità mi domando se quello è il mio limite o se semplicemente rispecchio il confine dell’altro.
Guardo le storie di confine sul mediterraneo e lo sguardo della donna che aveva rifiutato di tornare in Libia. La donna che è sopravvissuta e l’altra morta con il bambino. E mi domando dov’è il confine del sopportabile per noi esseri umani.
Non possiamo evitare di mettere confini. Lo facciamo tutti. Lo faccio anch’io. A volte mettiamo un confine quando la nostra pazienza ha raggiunto il limite: peccato che quel limite sia tanto personale. A volte lo facciamo quando proviamo rabbia o paura. Anche quelle espressioni personali di emozioni transitorie. Altre volte lo facciamo perchè ci sembra che mettere quel confine sia un modo per affermare la nostra esistenza. Non potremmo vivere senza confini eppure quei confini dichiarano il limite tra appartenenza ed estraneità. E, molto spesso, il limite tra quello che riteniamo giusto e quello che crediamo sbagliato. Ecco quello è il confine che mi fa paura. Quando non ci limitiamo ad affermare il nostro limite personale ma invochiamo la giustizia per proteggere la nostra idea. Quando il nostro confine definisce il giusto e quindi mette gli altri nella categoria dello sbagliato. Quando facciamo così e coloriamo di rabbia la nostra affermazione. Quando dimentichiamo che quello che ci rende umani è che traversiamo tutti, molte volte, i confini tra vecchio e nuovo, tra giusto e sbagliato, tra appartenenza ed estraneità. E questi confini non sono geografici ma poetici. Nascono da quello che sentiamo e non sono segni inamovibili ma transitorie demarcazioni d’esistenza.
Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani. Goliarda Sapienza, pubblicata nell’articolo Confinitudine. Il confine nei versi
Pratica di mindfulness: Protendersi
© Nicoletta Cinotti 2018 La cura del silenzio
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