
Solo in uno spazio aperto e non giudicante possiamo riconoscere quel che proviamo. Pema Chödrön
Stare in quarantena cambia: questo è certo. Una delle cose che sono cambiate è la nostra considerazione sui bisogni personali. Rimanere distanti ha reso meno scontato tornare vicini e gli effetti si stanno vedendo su due aspetti: l’autonomia e il problem solving. Sia autonomia che problem solving sono collegati. Più siamo autonomi più la nostra capacità di risolvere i problemi è flessibile ed efficiente. In realtà questa capacità è sempre usata in modo condizionale rispetto all’autonomia. Le soluzioni che scegliamo – se siamo poco autonomi – sono sempre condizionate da quello che immaginiamo sia l’approvazione che la nostra decisione può incontrare. Quindi molte volte abbiamo idea di cosa sarebbe meglio per noi ma non lo facciamo per non essere disapprovati. Durante la quarantena però abbiamo potuto prendere distanza anche dalla nostra vulnerabilità alla disapprovazione – occhio non vede e cuore non duole – e quindi abbiamo potuto renderci conto che, tutto sommato, possiamo correre, più di quello che credevamo, il rischio di fare scelte che gli altri non condividono.
Un passaggio di crescita? Sicuramente un passaggio verso l’autonomia. La distanza però ha anche un altro effetto: fa diminuire l’empatia nei confronti degli altri. Quindi, mettendo insieme le cose, potremmo diventare più autonomi ma meno sensibili. Almeno fino a che non avremo sviluppato maggiormente una empatia a distanza: come vediamo con gli haters il mezzo virtuale facilita l’emergere della crudeltà, che è proprio l’antagonista naturale dell’empatia.
Che fare? Rispondo da autonoma, quale credo di essere. Bisogna mantenere sempre, dentro di noi, l’immagine degli altri, anche quando facciamo scelte autonome e in controtendenza rispetto all’abitudine dominante. Non per farsi condizionare ma per lasciare che l’emozione relazionale ci raggiunga e faccia crescere una sfumatura sociale nella nostra scelta. I comportamenti troppo egoistici, alla fine, non aiutano nessuno, nemmeno chi li fa. Autonomi sì ma con sentimento!
In questo senso la pratica di Metta o gentilezza amorevole è perfetta: ci ricorda che l’amore che abbiamo per noi, l’intimità che coltiviamo con noi si riflette su tutti i nostri rapporti: da quelli più vicini a quelli più lontani, perché nessuno si salva da solo, anche se lo crediamo, segretamente, un po’ tutti.
Solo in uno spazio aperto dove non siamo imprigionati nella nostra versione personale della realtà riusciamo a vedere e udire e sentire chi sono davvero gli altri, cosa che ci permette di stare con loro e di comunicare correttamente. Pema Chödrön
Pratica di mindfulness: La pratica di gentilezza amorevole della mattina
© Nicoletta Cinotti 2020 Pratiche informali di ordinaria felicità