
La gentilezza può avere vizi?
Alcune persone negli incontri in cui parliamo di gentilezza si rammaricano portandoci il loro essere gentili come un atto frainteso. La gentilezza equivale a debolezza, quasi una sorta di autorizzazione ad essere maltrattati. Come se la gentilezza connotasse una sorta di atteggiamento dimesso, sempre disponibile, che porta nel tempo quasi a mortificare se stessi autorizzando prevaricazioni, legittimando arroganze o facendo sentire impotente chi, per un senso di gentilezza mal interpretato, rinuncia ad affermare se stesso, ad esistere in qualche maniera.
In questa accezione la gentilezza può essere intesa come l’applicazione delle norme più ordinarie di buona educazione; salutare sempre ad esempio, non alzare mai la voce e non creare mai contrasti oppure ancora essere sempre pronti, disponibili fino al sentirsi sopraffatti a dover dire sempre si. Diventare un po’ vittime di chi considera la gentilezza altrui una sorta di autorizzazione ad approfittare, ad esercitare un potere in qualche maniera… “Chiediamolo a lui, è sempre così gentile!” “Facciamolo fare a lui è sempre tanto gentile…non dice mai di no!”
Con il termine “virtù” della gentilezza abbiamo voluto invece esplicitare il senso autentico, profondo, di questa qualità. Abbiamo voluto usare l’espressione vizi e virtù per mettere in evidenza l’equivoco a cui si presta la parola gentilezza in alcuni contesti.
Consideriamo la sua etimologia. Troviamo in greco ethnikos, da ethnos razza, gente; nel latino gentilis “che appartiene alla gens”, a un gruppo di famiglie con un capostipite comune. Se andiamo alle lingue più moderne in inglese kindness dove kind significa dolce, ma anche genere, razza; in spagnolo bondad, gentile e specie; in tedesco reundlichkeit, amichevolezza.
Sembrerebbe, da queste definizioni, che prevalga un concetto di appartenenza.
Partendo da questa etimologia, desideriamo far emergere quel senso di appartenenza appunto, capace di contemplare un reciproco rispetto, un reciproco interesse. Una considerazione dell’altro come parte della propria esistenza, con una qualità di presenza che garantisce l’incontro fra due persone. Una presenza affettiva, e al pari autorevole, dove il mio esistere non può in alcun modo penalizzare il tuo, dove i miei “no”, seppure espressi consapevolmente e quindi nella maniera più funzionale, (ascritti troppo spesso a una mancanza di gentilezza), non pregiudicano la relazione. Uno spazio della relazione dove è possibile affermare i diritti senza cadere in stati di subordinazione o debolezza.
La gentilezza dà forza e dignità, irrobustisce il senso di appartenenza.
Nel nostro libro hanno avuto un impatto tanto significativo le “disconferme” perché con questo termine identifichiamo tutte quelle manifestazioni nelle quali l’altro viene ignorato, non considerato, all’altro non si attribuisce valore. Si traducono in sottili, ma significative disattenzioni che alla lunga segnano profondamente la persona che le riceve, rischiando di compromettere pesantemente la relazione. Piccoli maltrattamenti che finiscono per caratterizzare gli scambi umani fino ad una sorta di assuefazione finendo per essere ritenuti quasi normali. E oltre a manomettere la relazione pregiudicano per questo qualunque progetto che sia professionale o di vita…
Approfondendo questo tema si realizza che talvolta siamo anche noi ad agire queste mancanze di attenzioni, perché le disconferme non derivano sempre da atti deliberati, ma proprio da disattenzioni, dovute spesso a mancanza di presenza; presenza che è alimentata dall’attenzione, che a sua volta nutre e alimenta la consapevolezza. Quest’ultima è divenuta oggi una parola che rischia di esprimere un significato che rimane un po’ in superficie.
Quello che è certo è che siamo quasi sempre consapevoli di ciò che diciamo e di ciò che facciamo e anche del perché lo diciamo e lo facciamo. Nella nostra esperienza sembra più difficile essere consapevoli di che cosa si produce sia in noi stessi che negli altri per effetto di quello che diciamo o facciamo.
Il tanto citato “mettersi nei panni degli altri” resta molto spesso limitato alla sua sola enunciazione; quante volte quando diciamo o scriviamo una cosa ci chiediamo profondamente chi è la persona a cui ci stiamo rivolgendo, e conseguentemente che effetto possono generare in lei le parole che stiamo dicendo o scrivendo?
Consideriamo adesso lo spazio dell’unicità dell’altro. Uno spazio in cui l’accoglienza dell’altro determina la cura e l’attenzione che io userò nei suoi confronti per far sì che quanto sto trasferendo abbia il miglior risultato, sia sul piano dell’efficienza e della funzionalità che, e soprattutto, nel rispetto del piano relazionale. Vorrò così conoscere le differenze, le preferenze fra il mio stile e quello del mio interlocutore, vorrò accettarle e rispettarle, proprio per rendere il tutto più fluido e funzionale nel reciproco interesse e in quello ultimo del risultato a cui desidero arrivare.
Per quanto io possa impegnarmi in questa direzione una considerazione importante riguarda la consapevolezza del fatto che mi rapporto con l’altro, sempre e comunque, partendo dall’idea che, nella mia realtà interiore, si è costruita di lui. Infatti ci saranno comunque i miei filtri personali che interverranno nella “mia” percezione di chi mi sta di fronte, ci sarà sempre un non conosciuto da me che merita rispetto, attenzione consapevole e gentilezza.
Il perno profondo della gentilezza anticipato poco sopra è la presenza. Una presenza all’altro, un rispetto dell’altro, un riconoscimento dell’altro, garantita da un ascolto singolare espresso in maniera così sapiente da quanto scrive Luce Irigaray nel suo libro “Amo a te”:
“Io non ti so”. “Non ti riduco alla mia esistenza, alla mia esperienza, al già conosciuto da me. Ti ascolto
Ti ascolto, percepisco ciò che dici, vi sono attento, cerco di sentire in quello che dici, la tua intenzione.
Questo non significa “ti capisco ti conosco” quindi non ho bisogno di ascoltarti.
No, ti ascolto come colui e ciò che non conosco ancora, a partire da una libertà e una disponibilità che riservo per questo avvenimento.
Ti ascolto lascia spazio per il “non ancora codificato”.
Ti ascolto non a partire da ciò che so, che sento, che sono già, e neppure in funzione di ciò che sono già “il mondo e la lingua”. Dunque in modo, in un certo senso formale.
Ti ascolto come la rivelazione di una “verità non ancora manifestata”. La tua!
Un ascolto, una presenza, una «pratica della gentilezza» scrive Nicoletta Cinotti «che, anche se richiede di sederci di fronte a noi stessi, non ha mai noi come fine ultimo».
Una gentilezza che ha la possibilità di farsi intima, profonda, autentica, non “formalmente” legata ad un ruolo o ad un contesto o all’importanza dell’interlocutore: una gentilezza che non cessa di essere neanche nelle relazioni che diventano più familiari. Dove nasce quella confidenza in cui si può smettere di essere gentili, di trattare e trattarsi bene.
In questo panorama si comprende come la gentilezza sia sostenuta dall’attenzione, parola in parte abusata o comunemente usata come segnale di allarme e di concentrazione che noi citiamo ed usiamo nella sua etimologia: ad-tendere, tendere verso. In questa accezione diviene sinonimo di presenza.
Consideriamo la presenza sostanza e strumento della gentilezza autentica, una presenza che esalta e “sensibilizza” qualità, dignità e connessione della relazione con sé stessi e con gli altri. La presenza, un’attenzione deliberata rivolta ai tre livelli, il corpo, le emozioni e i pensieri della persona, sempre nella consapevolezza del contesto in cui si manifestano, può così divenire qualità dell’essere che si innesta in un “fare”. Un passaggio cruciale, un passaggio anche culturale, che permette alla gentilezza di essere vista, riconosciuta e restituita alla realtà concreta dell’umano, in quell’unico quotidiano considerato reale “fatto” di destrezza, risultati, determinazione e “no” assertivi.
Finalmente fuori da ogni connotazione “manieristica”, la gentilezza diviene vera e propria pratica della presenza, di un’attenzione sottile “che tende” a ciò che esiste proprio ora, nello spazio intra-personale e inter-personale. Muovendosi da sé all’altro, sempre considerando il contesto, la gentilezza sembra emergere come diversa modalità di esistere, di abitare sé stessi e di connettersi con gli altri, quasi a rinfrescare e modellare nuovamente, come fosse creta fresca, il concetto stesso di virtù. Una virtù che ha strumenti operativi di riferimento per la sua pratica, che fa amicizia con la possibilità di essere misurata, che può segmentarsi in tappe per essere esplorata e può essere nutrita: una virtù a servizio dell’esistere. Ecco che la gentilezza può finalmente dismettere i panni di orpello utile solo ai “deboli ma buoni”, ai “buoni che sono deboli”, o ai “buoni” in generale, e diventare modalità “di stare e agire” profondamente scelta momento-dopo-momento che accompagna la persona: nella considerazione dei suoi talenti, nella presa in carico e cura delle sue sensazioni, emozioni e pensieri, nella determinazione dei suoi obiettivi, nella connessione con le altre persone.
Incontrarsi, guardarsi negli occhi,
prendere i tuoi occhi e metterli al posto dei miei,
prendere i miei occhi e metterli al posto dei tuoi,
per vedere te con i tuoi occhi,
perché tu veda me con i miei occhi.Buber
Ciò che fa davvero la differenza è conservare la consapevolezza, “la filosofia e la religione dell’incontro” da cui sono tratti i semplici versi citati: una convergenza nell’istante.
© Anna Maria Palma 2017 Foto di © ****ale****
Anna Maria Palma e Lorenzo Canuti condurranno il nostro Kindness Lab per la Giornata internazionale della Gentilezza presso la nostra sede di genova, Domenica 12 Novembre alle 18. Per partecipare è indispensabile registrarsi su Eventbrite (Clicca sulla parola Eventbrite per andare alla registrazione)