
Questa potrebbe sembrare un’intervista perché ci sono delle domande e delle risposte. Forse, potrei dire che è una “intervista”, perché Silvia con il suo libro si è “fatta vedere” e, stranamente, in tanti momenti, mi sono “sentita vista”.
Credo che abbia fatto questa impressione a molte persone, che si sono sentite viste nel loro dolore, nei loro pasticci e nella loro voglia di vivere. Un desiderio di vivere che non esclude lo scoraggiamento ma lo contempla.
Nel leggere Adelante ho riso di gusto, come non facevo da tempo, da lettrice esigente, subito pronta a rimanere delusa. Ho anche sofferto, come faccio sempre quando le parole arrivano al cuore. E poi ho capito che, in fondo, ognuno, al di là della storia, scrive di sé e del proprio dolore.
D. Hai scritto “C’è da inchinarsi di fronte a chi riesce a convertire il proprio dolore in qualcosa di comunicabile al prossimo”. Pensi di aver fatto questo con il tuo libro? e se si, ti sei inchinata a te stessa?
Comunicare, ovvero l’azione di mettere in comune. Stabilire un contatto con l’altro.
Quando ho iniziato a scrivere, “l’altro” era un universo parallelo, galassie lontanissime, fonte di preoccupazione (esposizione, giudizio,dolore certo).
In me non era previsto l’ascolto, non era previsto il confronto. Chi avesse letto quelle pagine non avrebbe potuto fruirne. Io stessa non potevo fruire di qualcosa che semplicemente avevo spostato da una parte all’altra, da dentro a fuori. Era un primo passo, ma non era sufficiente. Avevo solo svuotato la cantina riempendo il patio: tutto era rimasto come prima.
Scrivevo di me stessa, per me stessa, a me stessa. Io, io, io.
Le cose sono cambiate quando mi è stato suggerito di prendere in considerazione un’apertura verso l’esterno e ho accettato il consiglio.
Allora, inconsapevolmente, ho sperimentato il lavoro del vasaio.
Accogliendo il suggerimento all’apertura , l’atto di scrivere è diventato l’impasto, mettere le mani dentro alle cose, prendere contatto con la flessibilità, discernere quello che poteva essere trasformato.
Il processo di asciugatura necessario al manufatto è stato l’elaborazione, prendere distanza, lo ‘stare’ con quello che c’era.
Infine la cottura, l’interazione col fuoco, la collaborazione.
Il fuoco ci è dato, come la fiducia. Occorre saperlo accettare.
Occorre essere in grado di accogliere, procedere al disarmo, disvelare invece di involvere, lasciare che altri suoni si uniscano alla sola voce e restare a vedere cosa succede.
In tale senso mediante questo libro penso di aver convertito un dolore confuso e stagnante in qualcosa di comunicabile al prossimo.
La tua domanda mi ha colta di sprovvista. Non avevo pensato di offrire questo riconoscimento a me stessa. Non avevo pensato di esserne degna, anche se avevo svolto il lavoro del vasaio.
Ricordo di inchinarmi di fronte ad un altro, dimentico di essere io stessa l’altro.
Se però vedo questo nostro dialogo non come l’intervista riguardo un lavoro svolto ma come una risorsa per un percorso in essere posso provare da questo stesso istante a riconsiderarmi.
D. Com’è oggi, vedere che altri si “inchinano” a te? insomma che effetto fa scoprire che il tuo libro piace?
Quando mi dicono “scrivi bene” penso: meglio così. La scrittura è a servizio dei contenuti.
Meglio se è fluida, agile. Diventa essa stessa un espediente , come lo sono gli episodi narrati.
Devo osservare che quando mi ‘impegnavo’ a scrivere, quando cercavo le parole ‘giuste’ quando speravo di essere compresa piuttosto che lasciarmi andare la narrazione era forzata e la rilettura faticosa. Quando invece mi sono predisposta all’ascolto le cose sono cambiate. Non ‘dovevo’ cercare le parole, arrivavano. Era sufficiente lasciare che i ricordi fluissero tali e quali.
Avevo sempre cercato di aggiustare,abbellire, rendere comprensibile il materiale che trattavo.
È stato sorprendente riconoscere che lo facevo in primo luogo per me stessa. Quei ricordi mi facevano stare male, perché non renderli potabili alle mie orecchie?
Ma imbrogliavo, e si intuiva. Le parole c’erano ma non erano pervase di energia.
Fa la differenza.
Quando il mio percorso verso una maggiore autenticità è arrivato ad uno degli infiniti punti cruciali -ammetto che sto mentendo a me stessa – la svolta nello stile.
Potevo lasciarmi andare. Potevo provare compassione, anche per me stessa. Potevo sperimentarlo. Quindi potevo registrare – semplicemente ‘trascrivere’ – i ricordi che affioravano senza mediazione. Ero diventata più morbida, di conseguenza lo era diventata anche la scrittura.
Quando dicono “mi piace” a me arriva anche “mi piaci così . Più sincera”
Vorrei che avesse fatto meno male, ma fa male.
E quando invece mi dicono “ho pianto” e quando non dicono niente, ma ci guardiamo negli occhi e c’è una vibrazione, so che piangiamo e vibriamo per la stessa cosa.
Questo libro celebra un’energia potente che pervade la ricerca di sè, il coraggio di chi prova a stare, la fiducia e la collaborazione incondizionata tra esseri umani. Piangiamo per questo, di gratitudine.
D. Quanto è importante vedere il lato divertente delle cose?
‘Vi è indifferente il mare a quattro passi, con la luna dentro.
Neanche lo vedete.‘
“Dio taglia 60”, Gianluca Merola
Per me vedere il lato divertente delle cose rappresenta la salvezza. (Tutto sta nell’accorgersi – e nell’accorgersi sta tutto)
Tempo fa mi trovavo in una situazione estremamente complessa.
Le circostanze erano tali per cui l’unica possibilità di scampo era restare lucida e sul pezzo: non c’era modo di aggirare l’ostacolo con scappatoie di nessun genere.
Fisicamente ero al limite delle forze, anche per via di quello ‘stare’.
Però quelle notti avevo un libro. L’autore, vissuto principalmente negli Stati Uniti e scomparso da oltre trent’anni, in quelle pagine narrava episodi disastrosi della propria esistenza con un’autoironia sbalorditiva.
Non sapevo se nel momento in cui stava vivendo il disastro era già in possesso di questo filtro, se poteva cogliere sul fatto il lato ironico degli accadimenti, o se si era trattato di un ottenimento successivo che gli ha permesso di rivisitare e trasformare a posteriori il suo punto di vista e lo stato delle cose.
Sapevo solo che grazie alla risata quell’uomo mi stava salvando, dall’altra parte dell’oceano e decine di anni dopo .
L’evento disastroso si presta meglio della consuetudine per cogliere gli aspetti comici delle cose. La differenza è più marcata, la sorpresa deflagrante.
Uno dei punti cruciali è riuscire a creare un precedente, dovesse significare dismettere la veste della vittima e la scelta dell’autocompiacimento del dolore per osservare la scena in maniera più oggettiva.
La realtà può rivelarsi sfacciatamente comica.
Ammetterlo significa accorgersi che non poteva essere tutto così negativo, o così come lo avevamo connotato, quindi che la nostra visione degli eventi può essere messa in discussione.
Posso cambiare idea. Posso riderci sopra. Se rido il mio corpo mette in nota e non potrà dimenticarlo.
La trasformazione è innescata e il mare a quattro passi, con la luna dentro.
Concludiamo qui questa breve intervista. Che presenta un libro che mi fa pensare quanto sia fortunato leggere, quanto sia bello incontrarsi sulle pagine, oltre che nella vita. Con Silvia che ci guarda dal basso in su, perché è così che si cresce. Scrivendo.
© Nicoletta Cinotti
Lascia un commento